Il diritto a risollevarsi e ripartire
Pochi atleti hanno percorso il tragitto Paradiso-Inferno-Paradiso come Alex Schwazer. Passando per il Purgatorio di una squalifica per doping (Epo, tanto per cambiare) durata 3 anni e 9 mesi. Alex avrà 32 anni in dicembre, è diventato famoso vincendo nel 2008 la 50 km di marcia, una delle specialità più massacranti, o meno leggere se preferite, dell’atletica leggera. Alto, biondo, occhi azzurri, il classico bel ragazzo. Bella, famosa e vincente anche la sua fidanzata, Carolina Kostner, che volteggia e incanta pattinando sul ghiaccio.
Tutto salta per aria il 6 agosto 2012, quando mancano 5 giorni alla gara olimpica di Alex a Londra . È stato trovato positivo in un controllo a sorpresa effettuato il 30 luglio. Il Coni lo esclude dalla spedizione azzurra. Lui non si difende e nemmeno, in verità, dà spiegazioni molto chiare. Però piange come un vitello, nella conferenza-stampa, e chiede scusa a tutti infinite volte. Non si sottrae a nulla e quasi nulla gli rimane. Gareggiava per il Gruppo Sportivo Carabinieri: si presenta per restituire tessera e pistola, viene congedato. Aveva sponsor di peso: spariscono tutti. Dove vive, a Calice, minuscola frazione di Racines, lo sostengono. Altrove, molti preferiscono evitarlo. La conseguenza più dolorosa è la rottura del rapporto con Carolina, ma è colpa di Alex. Le ha chiesto di mentire il giorno di un controllo a sorpresa, di dire a quelli dell’antidoping che no, non era in casa Alex, che non aveva idea di dove fosse. E invece lui in casa c’era, e per quella bugia detta per amore Carolina è squalificata per 16 mesi. La sua vita e la sua carriera sono ferite. Quanto a Schwazer, sembra finito. Cattivi pensieri gli tengono compagnia, finché non gliene arriva uno bello: ricominciare da zero, ma senza dimenticare il passato.
Così Alex si rimette in gioco e per dimostrare la serietà delle sue intenzioni si affida a Sandro Donati, da molti anni conclamato cavaliere bianco nella lotta al doping. Manca circa un anno alle Olimpiadi di Rio. Donati accetta, ponendo strette condizioni. È un duro, contro il doping, ma capisce il lato umano: a tutti viene data una seconda possibilità. Così Schwazer si trasferisce a Roma, in periferia, alla ricerca dello Schwazer che era, che non aveva bisogno di aiuti chimici prima di cadere nelle tentazione e venire scacciato dalla luce, come Lucifero. Vita dura, allenamenti duri, svolti indossando la maglietta di Libera. Tutto a spese sue, sponsor non ne ha. Ha solo la sua volontà e, dalla sua parte, Donati, e non è poco, perché se sull’etica a Sandro nulla si può rimproverare sull’atletica poco ha da imparare. Oltre a svuotare l’armadietto di Alex dai medicinali, anche quelli leciti, tipo integratori, gli dà consigli su una più opportuna postura dei piedi. In breve, Alex va forte e aspetta con ansia la scadenza della squalifica per poter gareggiare e ottenere, grazie al tempo ottenuto, il visto per Rio de Janeiro. E Donati è soddisfatto: se Schwazer torna a essere competitivo senza doping, quale spot migliore si potrebbe inventare per l’antidoping? Se Schwazer torna tra i primi del mondo viaggiando a pane e acqua, come si dice in gergo, è una bella botta alle convinzioni e alla pratica di chi ritiene il doping indispensabile?
Ragionamento che fila ma che non a tutti piace. Pochi giorni prima dei 50 km a Roma, cioè del ritorno agonistico di Schwazer, il primatista mondiale indoor di salto in alto, Gianmarco Tamberi, scrive su Facebook: «Schwazer vergogna d’Italia, squalificatelo a vita, la nostra forza è di essere puliti, noi non lo vogliamo in Nazionale». Parole pesanti come pietre, che da un lato ignorano i regolamenti (chi sbaglia paga ma una volta che ha pagato può tornare a gareggiare) e dall’altro quel minimo di solidarietà tra atleti. Parole fin troppo pesanti. Come vergogna d’Italia, secondo me, molte precedono un marciatore dopato che, alla fine dei conti, ha fatto male solo a se stesso, perché la medaglia di Pechino è pulita e da dopato Schwazer non ha vinto nulla. Come vergogne d’Italia, mi sembra che la disoccupazione giovanile, le tasse non pagate dai più ricchi, le pensioni da fame siano piazzate meglio, e potrei continuare con l’elenco.
Come Tamberi la pensano altri azzurri. Il test Schwazer l’ha ampiamente superato con un 3.39’ non lontanissimo dal 3.37’09” che gli valse l’oro a Pechino. Andrà quindi a Rio, dal suo punto di vista nessun problema: «Ho scontato la condanna fino all’ultimo giorno, adesso posso camminare a testa alta». Non sarà tra i favoriti, al massimo un outsider, probabile che ci siano abbracci con Tamberi, o che mangino allo stesso tavolo, ma questo ha un’importanza relativa. C’è qualcosa, in questa storia di colpe e di riscatti, che richiama la parabola del Figlio prodigo, ma anche la vita di tutti i giorni, dove si può sbagliare per debolezza, per immaturità, perché si va appresso a qualcuno di cui ci si fida. Ho sempre combattuto una frase fatta: “lo sport è una metafora della vita”. Non è una metafora, è parte della vita. C’è chi va in galera, chi si buca (la droga è un doping non finalizzato) ma tutti hanno il diritto di ricominciare, di risollevarsi. Per questo la storia di Alex Schwazer e Sandro Donati, la più strana coppia che si potesse immaginare, può essere presentata come una storia di sport. Ma è, soprattutto, una storia di vita.