Caporali a Nord, le inchieste non bastano

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Storica sentenza del Tribunale di Cuneo: condannati un intermediario di lavoro sfruttato e gli imprenditori che se ne servivano nelle campagne attorno a Saluzzo. Lo sfruttamento nei settori agricolo e zootecnico sposta il suo baricentro. La recente legge è insufficiente: anche noi consumatori dobbiamo schierarci

Di giorno, a raccoglier frutta (biologica!) nei campi. Di notte, nei capannoni a macellare polli. Lavoro senza soste, o quasi. Per la bellezza di 5, massimo 5,50 euro all’ora. Il tutto intermediato dal caporale, straniero d’Africa come molti degli impauriti sfruttati.
Dopo 4 anni d’indagine, i giudici sono giunti a una sentenza da molti definita “storica”. Non tanto e non solo per le condanne comminate ai rei (5 anni agli agricoltori, 3 agli allevatori, 5 al caporale Momo), o per i risarcimenti (fino a 50 mila euro) riconosciuti alle vittime. Quanto, piuttosto, per il luogo in cui i reati sono stati commessi e l’inchiesta si è dipanata. Mica terre di mafie, non remoti agrumeti del Mezzogiorno. Ma le floride e ordinate campagne ortofrutticole attorno a Saluzzo. E il Tribunale di Cuneo, che con il verdetto di metà aprile ha svelato al Paese che lo sfruttamento in agricoltura e allevamento non è più un fenomeno di nicchia geografica, e anzi ha spostato verso Nord il proprio baricentro territoriale.
Una ricerca dell’Osservatorio Placido Rizzotto del sindacato Flai-Cgil aveva del resto certificato, poche settimane prima, l’esistenza di 405 aree del Paese interessate al problema, di cui sono vittima, nel 93% dei casi, lavoratori extracomunitari. Tristemente bilanciato è il quadro territoriale: 129 distretti del caporalato si contano al Nord, 82 al Centro, 123 a Sud, 71 sulle Isole. La Sicilia resta la regione in cui si registra il maggior numero di illeciti, ma seguita a ruota dal Veneto, e poco sotto da Lombardia e Piemonte.
Pressione con la spesa
E così, dal Cuneese al Polesine, dall’Oltrepò Pavese al Pordenonese, dalla Bassa lombarda ai Colli Euganei sino al Trentino, frutteti e serre, filari e stalle, vigneti e pascoli sempre più spesso sono teatro di forme di sfruttamento aperte, o celate da pratiche borderline. Come questo “sfondamento a nord” sia possibile, a sei anni dall’approvazione della legge 199, che ha innestato nel Codice penale un articolo (il 603-bis) destinato a colpire i caporali delle campagne, appare un mistero. Ma fino a un certo punto.
Grazie alla nuova legge e a una sensibilità più avvertita, infatti, l’attività repressiva si è rafforzata. Ma, a parte il fatto che operazioni di polizia e inchieste giudiziarie hanno tempi lunghi, essa sola non basta.
Per battere davvero il caporalato, andrebbero sviluppate azioni di sistema più incisive. Tese a smussare le distorsioni di mercato, che inducono i piccoli produttori a cercare ogni mezzo, anche illegale, per comprimere i costi di produzione, esposti come sono al potere di acquisto a basso prezzo della grande distribuzione commerciale. Poi bisognerebbe offrire percorsi più agili e meno onerosi, e più controllati, per l’assunzione di personale temporaneo. E rafforzare il ruolo delle organizzazioni sindacali e sociali (come le Caritas diocesane, tra cui quella di Saluzzo, coinvolte da anni nel progetto Presidio) che assistono i lavoratori e operano per elevarne la consapevolezza dei loro diritti.
A valle, tocca anche a noi consumatori. Formarci a scegliere prodotti provenienti da filiere “pulite”. Ed esercitare, con una spesa consapevole, pressione su chi commercia. Perché i caporali, a Sud come a Nord, vanno perseguiti. Ma non è eliminando il pesce che vi sguazza, che si risana l’acquario torbido.

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