Conoscere le proprie radici Il dialetto crea appartenenza

Facebook
Twitter

Sintesi di un sentimento, di una speranza, di un modo di essere che costruisce un’identità. Parliamo del dialetto, di Jannacci con il suo epos beffardo, di Dario Fo, Giorgio Strehler. E finiamo all’Idroscalo, luogo mitico del dialetto cantato, dove le scarp del tennis sono ancora oggi un simbolo amico

Che scusè, ma mi voeuri parlav… E se comincissimo così? Come lo straordinario incipit della canzone che dà il titolo a questo giornale? C’è un po’ di scarp del tennis nell’iniziativa del Corriere che resuscita il dialetto come lingua identitaria, del dialogo, della porta accanto.
C’è Jannacci con il suo epos beffardo che racconta luoghi e personaggi della memoria, insieme a Bertolazzi e Strehler che mettono in scena El nost Milan dove il dialetto è la lingua tragica della povera gente, ma è anche la sintesi di un sentimento, di una speranza, di un modo di essere che costruisce un’identità.
E così tra il Tessa che scrive l’è il dì di mort, alegher e il Porta delle Ninette senza vergogna del Verzee, Milano si è ricordata di una lingua sepolta negli archivi e nelle biblioteche del Circolo filologico e della Famiglia meneghina, una lingua dell’anima che non deve essere perduta, perché nel mondo globale è importante conoscere le proprie radici, sapere che il dialetto crea appartenenza, ma fa anche rima con accoglienza.


Milanesissima generosità
Dietro l’omaggio ai grandi che alla lingua milanese hanno reso onore (questo è l’anno del bicentenario di Carlo Porta), dietro il tributo a poeti, cantanti e teatranti capaci di lasciare tracce robuste con recital e rappresentazioni, è emersa nei lunghi mesi della pandemia la voglia di conoscere detti ed espressioni di popolare saggezza.
Così, un po’ per caso e un po’ per gioco, i lettori hanno scritto al Corriere indicando parole scomparse sentite dai nonni e dai genitori cresciuti all’ombra del dialetto.
Barnasc, che cos’è costui?
E balabiott, vuol dire soltanto spiantato perdigiorno o c’è qualcosa che riguarda alcuni dei politici di oggi?
Mentre dalla Bocconi la commissaria europea Ursula von der Leyen faceva il saluto alla città con le parole del maestro D’Anzi, Milan l’è on gran Milan, ha preso forma l’idea dei libretti da regalare ai lettori, un modo per lasciare anche alla generazione di internet la traccia visibile dell’ironica saggezza di un tempo, quando, per dirla con Giuseppe Guzzetti, la civiltà contadina ispirava atteggiamenti e comportamenti, validi anche oggi: la fortuna la gh’ha la coa, chi la catta su l’è soa.
Senza nostalgia, perché quella immalinconisce, il dialetto si è rimesso in pista come incrocio di storie e memorie: un punto d’appoggio per un dialogo generazionale. Troppo tardi? Le lettere ricevute dicono che nelle case milanesi il dialetto è ancora vivo e lotta insieme a noi. Forse è diventato troppo presto reliquia, seppellendo coi ricordi anche la sua grande magia.
Come si fa a non avere un brivido pronunciando la parola schighera, che sta per nebbia, o scarliga merluzz, come lo pronunciava Liliana Feldmann alla radio del Gazzettino padano?
E come si può ignorare la voce di Jannacci, o di Svampa, o di Gaber, o di Dario Fo quando ci si avventura in certi luoghi parlanti della città?
A Rogoredo, per esempio. All’Ortica, con la banda e il disperato palo che non vede un accident. A San Vittore, dove l’accoppiata Strehler-Vanoni fa venire i brividi quando canta Ma mi.
O per finire all’Idroscalo, luogo mitico del dialetto cantato, dove le scarp del tennis sono ancora oggi un simbolo amico, quel che resta di una milanesissima generosità.

Leggi di più

Gli ultimi articoli

Gli argomenti più seguiti