Cos’è il privilegio, nell’America che vede aumentare i propri poveri

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Ma cosa s’intende quando si parla di privilegio? La prima caratteristica è certamente il concetto di relatività: c’è sempre chi sta meglio o peggio di altri e spesso non solo per motivi economici, ma anche per le mille generalizzazioni e pregiudizi che senza accorgercene abbiamo un po’ tutti. Cioè: io avrò anche delle belle amache, ma c’è gente che usa il proprio aereo privato come se fosse una Vespa, per capirci. Una delle conseguenze di tutto ciò, e che è parte integrante della nostra società, è la divisione
di cittadini in classi sociali e i mille pregiudizi che ne derivano

Come quasi tutti i fine settimana, io e la mia famiglia sabato sera ci siamo recati nella nostra casetta in campagna. È la nostra seconda casa, dopo quella bella e grande di Cambridge, nello Stato del Massachussetts, a dieci minuti dal centro di Boston. Siccome era una bellissima serata piena di stelle, abbiamo deciso di invitare degli amici. Due coppie: la prima vive a Brooklyn. Russ è musicista, Liz insegna arte in una scuola elementare privata che costa circa sessantamila dollari l’anno. Anche loro hanno comprato una seconda casa a Becket. La seconda coppia, invece, vive nel cuore di Manhattan. Gabriel, di famiglia molto benestante, scrive, gira e produce documentari e Monica, italiana, si occupa di gioielli antichi. Ci raccontava Gabriel del viaggio di sette settimane che lui e la sua famiglia hanno fatto quest’estate. Sono partiti da New York per atterrare a Londra, dove hanno incontrato degli antiquari di gioielli, e poi sono andati a Berlino, dove lui ha partecipato a un festival del cinema. Si chiacchierava di fronte al falò che mio marito Dan aveva acceso, circondati dal bosco e dalla luminaria che piace a tutti. Dietro di noi, due amache aspettavano qualcuno da cullare in un mondo di sogni e pensieri positivi.

Barbara e Bill
Di fronte a casa nostra, invece. abitano un uomo e una donna. Lei, Barbara, non potrebbe lavorare perché riceve l’assegno di disabilità per via di un problema alla schiena. Siccome non basta, tutte le mattine si sveglia all’alba per pulire i bagni, il pavimento e la cucina di un McDonalds a una ventina di minuti da casa. Lui, Bill, ha lavorato per anni in cima alle case, ad aggiustare o istallare tetti. Adesso però non riesce a trovare lavoro. Quando chiacchieriamo, spesso mi racconta degli episodi della sua vita. È cresciuto in una roulotte con la madre giovanissima e il compagno della mamma, che un giorno si è svegliato di cattivo umore e ha sparato alla madre davanti al piccolo Bill, uccidendola. Il padre, invece, è morto in autostrada, quando la sua vettura prese fuoco. Da quel giorno, lui è passato di famiglia in famiglia in affidamento. Alcune erano brave persone, la maggior parte, invece erano violente. È stato senzatetto per un po’ di tempo, ha cambiato città cento volte, facendo qualsiasi tipo di lavoro per poter mangiare. Poi, non so come, è arrivato a Becket e adesso vive con la sua compagna Barbara, con cui però non va d’accordo. Qui, si cimenta in lavoretti, taglia l’erba per pochi dollari e d’inverno spala la neve. Una vita da romanzo, che persone privilegiate come noi non si immaginano neanche. A differenza nostra, Bill non è mai stato seguito da un terapista, non ha mai preso antidepressivi, non ha neanche pensato alla possibilità di essere aiutato da una persona competente. Dopo la mia terza gravidanza, io, che soffro di depressione, mi incontravo con una terapista una volta alla settimana per capire dove trovare un po’ di tranquillità. Altri tempi, mi dice Bill quando gliene parlo. Altri mondi, rispondo io tra me e me.
Ricordo che qualche anno fa, io e Dan decidemmo di far loro un regalo di Natale: abbiamo messo dei contanti in una busta così che potessero andare a cena in un ottimo ristorante a una mezz’oretta da casa. Ovviamente a loro non interessava per nulla andare a mangiare fuori e usarono quei soldi per fare una bella spesa. Malgrado ci basti attraversare la strada per stare insieme, in realtà siamo lontani migliaia di miglia l’uno dall’altro. Dalla lente da cui vediamo la nostra realtà, che noi consideriamo normale, non riusciamo neanche a capire che chi non ha neanche i soldi per piangere ha priorità diverse da noi. Il ristorante? Mi sono sentita profondamente imbarazzata quando ho realizzato la mia cecità di fronte a tante evidenze.
Tutto questo per dire che quando ci si siede su sdraio importate dall’Italia di fronte al falò e alle luminarie da rivista, magari potremmo provare a non lamentarci di questi voli internazionali che fanno aspettare un’ora alla dogana, o di come in campagna non si trovino molti prodotti biologici al supermercato, o che i nostri figli adolescenti passino troppo tempo davanti all’ultimo modello di iPhone.
Vorrei potermi vantare di essere migliore dei miei amici e di aver soppesato il mio privilegio, di averlo messo in un contesto in cui, francamente, c’è un po’ da vergognarsi. Ma il fatto è che mentre raccontavo di quanto fossero chiassosi i cani dei vicini, a una trentina di chilometri da me c’erano persone che non hanno neanche il privilegio di poter lamentarsi dei vicini, perché sono senza dimora.
Il privilegio. Spesso è talmente scontato che pare una cosa normale, di tutti. Gioielli, arte, documentari, viaggi, seconde case tra i boschi del Berkshire, località turistica per ricchi bostoniani e newyorchesi. Non ci passa mai neanche per l’anticamera del cervello il pensiero che il nostro privilegio possa essere per altri un sogno irrealizzabile. Eppure. Eppure, fuori dai boschi, nel 2022 si è alzata la percentuale di americani che vive sotto il livello della povertà.
Eppure, solo in California, nel 2022 ci sono 151.278 persone che stanotte dormono per terra, dove possono. Di questi, quasi 12 mila sono ragazzi. Eppure, la popolazione dei senzatetto nella città di New York ha raggiunto livelli talmente alti che si avvicinano a quelli contati durante la Grande Depressione degli anni Trenta. Sono 91.271 le persone che invece di leggersi un bel libro su un’amaca, stanotte dormiranno sotto la metropolitana, nelle stazioni, sotto i tetti della Grande Mela. Di questi, quasi tremila sono ragazzi.
Eppure, in altre zone dello Stato in cui io vivo, quasi diciottomila persone sono senza fissa dimora.
Eppure, il gap fra chi ha e chi non ha aumenta di anno in anno. Questo è il Paese delle opportunità, si dice. Se una persona si impegna e lavora pare che sia garantito un livello di benessere. Non è così per tutti: c’è chi si impegna, ha ottantamila dollari per andare all’università, è bianco, maschio e lavora nei settori in cui si guadagna di più. E c’è chi si alza alle quattro del mattino per lavorare in fabbrica, lavora tutto il giorno e torna nel suo appartamentino fatiscente in periferia. Di solito si tratta di persona senza una laurea e senza la pelle così bianca. «Malgrado ci sia l’idea che gli Stati Uniti siano una Nazione in cui il lavoro duro e il desiderio di uscire dal vortice della povertà debba inevitabilmente portare al successo, purtroppo non è il caso per la maggior parte di americani». Non lo dico io, lo dice un sito governativo americano che si occupa di dati statistici.

Privilegio e senso di colpa
Ma cosa s’intende quando si parla di privilegio? La prima caratteristica è certamente il concetto intrinseco di relatività: c’è sempre chi sta meglio o peggio di altri e spesso non solo per motivi economici, ma anche per le mille generalizzazioni e pregiudizi che senza accorgercene abbiamo un po’ tutti. Cioè: io avrò anche delle belle amache, ma c’è gente che usa il proprio aereo privato come se fosse una Vespa, per capirci. Una delle conseguenze di tutto ciò e che fa parte integrante della nostra società, è la divisione di cittadini in classi sociali e i mille pregiudizi che ne derivano, soprattutto quando si tratta di genere o di etnie.
Come ci si rapporta al privilegio? Si decide di fare una vita meno confortevole? Ci si sente in colpa e si rimane passivi di fronte alla realtà? Non lo so, ma forse cominciare a prendere coscienza della nostra situazione invece di trasformarla in sensi di colpa sarebbe un buon inizio. Potremmo trovare un punto di partenza per partecipare attivamente alle problematiche sociali, prendendo atto del fatto che abbiamo più di altri. Potremmo cominciare a trasformare il senso di colpa in empatia, per esempio. Sarebbe un passo avanti poter apprezzare il nostro stile di vita e magari partecipare socialmente ai tentativi di diminuire, anche di poco, le piaghe sociali.
A volte basterebbe votare per la persona giusta. A volte.

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