Costa d’Avorio: il cacao amaro di Adama bambino costretto a lavorare nei campi

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La denuncia dell’Unicef: migliaia di bambini provenienti da Mali, Burkina Faso, Togo o dalle regioni centro settentrionali della Costa d’Avorio, sono stati deportati nelle piantagioni di cacao con la promessa di una vita migliore. Promessa che non potrà essere mantenuta perché senza un’istruzione questi ragazzi non riusciranno mai a liberarsi dalla schiavitù e dalla povertà

Adama ha dieci anni e vive con la famiglia in una casupola molto semplice, nel cuore di una grande piantagione di cacao nel centro-nord della Costa d’Avorio. Le ultime piogge sono state abbondanti e la vegetazione è rigogliosa. Sulle piante, grandi fave di cacao di un bel giallo acceso attendono di arrivare a maturazione per essere raccolte.
Nello spiazzo davanti a casa, la mamma accudisce il fratellino più piccolo mentre pila il grano in un mortaio. Una classica scena di vita rurale africana, dove l’apparente tranquillità del quadro bucolico nasconde la fatica enorme di esistenze appese a un filo.
Adama e la sua famiglia non sono ivoriani. Come gran parte della popolazione che vive nelle regioni settentrionali della Costa d’Avorio, viene dal Burkina Faso. Lui è nato qui, ma non ha la cittadinanza e, con essa, tutta una serie di diritti che lui – come pure la sua famiglia – non sanno neppure di avere. Sono immigrati venuti per lavorare. E sono considerati alla stregua di braccia o di strumenti.

Un bene rifugio
Sono loro che permettono alla Costa d’Avorio di essere il principale produttore di cacao al mondo: lavorano la terra che non è loro e dalla quale possono essere cacciati in qualsiasi momento; lavorano per compensi che non decidono e che spesso sono determinati dalle logiche di mercato e dai governi.
Il cacao, infatti, è considerato un bene rifugio, al punto che si stima che ogni anno vengano fatte quasi 3 milioni di transazioni finanziaria in cacao, per un totale di circa 10 milioni di tonnellate.
Adama non sa nulla di tutto questo. Sa solo che, se va bene, riesce ad andare a scuola qualche mese all’anno. Non importa se deve camminare una decina di chilometri. Gli piace studiare e da grande vorrebbe fare il meccanico o l’autista. Intanto, però, per molti mesi, lavora come un piccolo schiavo. Durante la stagione del raccolto, infatti, si ripresenta inesorabile la piaga del lavoro minorile, spesso in condizioni di vera e propria schiavitù. Non che per gli adulti vada meglio. Si tratta pur sempre di un lavoro molto duro e sottopagato, che spesso garantisce la mera sussistenza. Ma per i bambini significa una grave ipoteca sul futuro.

Bambini vittime di tratta
L’Unicef ha ripetutamente denunciato questo grave fenomeno che, solo in Costa d’Avorio, coinvolge oltre un milione di bambini. Molti di loro sono anche vittime di tratta: «Migliaia di bambini provenienti da Mali, Burkina Faso, Togo o dalle regioni centrali e settentrionali della Costa d’Avorio sono stati deportati nelle piantagioni con la promessa di una vita migliore. Tutto ciò va ad alimentare la tratta nazionale e internazionale di minori».
Nel Paese, tuttavia, il lavoro minorile non è solo un problema stagionale: oltre un quarto dei ragazzini tra i cinque e i quattordici anni, infatti, è costretto a lavorare per contribuire ai bilanci familiari. La metà circa non frequenta la scuola e molti altri lo fanno in modo occasionale. Proprio come Adama. Che senza un’istruzione non avrà mai la possibilità di liberarsi veramente anche dalla schiavitù dell’ignoranza e della povertà.

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