Davide Astori

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E quante morti difficili da accettare

La morte nel sonno a 31 anni di Davide Astori, difensore e capitano della Fiorentina, ha portato una parte di mondo a rendergli omaggio in modo serio e profondo. Non solo Firenze, non solo le squadre in cui aveva giocato prima (Milan, Cagliari, Roma), ma tutt’Italia, da Genova a Bari, da Bologna a Palermo, e poi fuori, da Londra a Barcellona. Perché questa mobilitazione del sentimento? Astori, nel ricordo di chi lo ha conosciuto bene, era soprattutto un bravo ragazzo, sempre pronto a dare una mano. Anche in Nazionale, pur non essendo titolare. Non era un campione, un superman, ma un onesto professionista che in campo dava tutto ma aveva interessi anche fuori dal campo: l’architettura, le filosofie orientali. E una bella compagna, una figlia di due anni. Morti così sono più difficili da accettare perché riguardano atleti nel pieno della condizione, perennemente sotto controllo medico. Com’è possibile che passi inosservato un male cardiaco, o cerebrale? È possibile, tant’è che a poche ore dalla scomparsa di Astori arrivava un’altra notizia: morte nel sonno di Thomas Rodriguez,19 anni, giovanili del Tours (serie B francese).
Si continua a morire, a letto e sul campo. In Italia le prime immagini di una morte sul campo sono quelle di Renato Curi, centrocampista di 24 anni, che s’affloscia sull’erba fangosa il 30 ottobre 1977, il Perugia ospitava la Juve. Le ultime, quelle di Piermario Morosini, 24 anni, giocatore del Livorno impegnato a Pescara. C’era un defibrillatore a bordo campo ma non venne usato. Vita triste, quella di Morosini. Muoiono il padre e la madre quand’è giovanissimo, e poco dopo si suicida un fratello disabile. A Firenze, nel 2009, è morto Dani Jarque, capitano dell’Espanyol di Barcellona. La squadra era in ritiro al Centro tecnico di Coverciano in attesa di un’amichevole col Bologna. Jarque muore (asistolia, diranno i medici) mentre sta parlando al telefono con la fidanzata. Andrès Iniesta, l’asso del Barcellona, gli dedica il gol della vittoria con l’Olanda, finale mondiale. In ogni partita casalinga dell’Espanyol scatta un applauso dei tifosi al minuto 21, il numero della maglia di Jarque. Ancora in Spagna un morto giovane e già nel giro della Nazionale: Antonio Puerta, del Siviglia. Va a terra, è soccorso, esce dal campo sulle sue gambe ma un nuovo attacco gli è fatale. Displasia ventricolare destra, un’aritmia non facile da intercettare. Questo il responso del poi.
Sono felici le ultime immagini di Phil O’Donnell vivo. Campionato scozzese, 29 dicembre 2007: Motherwell-Dundee United termina 5-3. Molto importante il gol di testa di O’Donnell, 35 anni, che festeggia alzando un braccio, circondato dai compagni, ma arresta bruscamente la corsa e cade. Lo stadio, intorno, fa festa con bandiere e cori. A terra, O’Donnell finisce di morire. Sono beffarde e amare, se esistono, le ultimi immagini di Goran Tunijc, dilettante croato, 32 anni, che s’accascia in Mladost-Sokola, colpito da infarto. L’arbitro non capisce la gravità della situazione e lo ammonisce per simulazione. Quando arrivano i primi soccorsi Tunijc è ancora vivo, morirà sull’ambulanza. Sono serene le ultime immagini di Miklos Feher, ungherese del Benfica, 24 anni, da 7 sui campi portoghesi. Partita tra Vitoria Guimaraes e Benfica, sotto un diluvio. Terreno non ideale per un giocatore elegante e talentuoso come Feher, ma lui non è di quelli che si risparmiano. È il 25 gennaio 2004, già fissate le nozze in giugno. Nel finale Feher si fa ammonire dall’arbitro Bequerença perché ostacola una rimessa laterale degli avversari. Gli sembra assurdo, si volta e sorride. Poi va a terra e non si rialza più. Spiegazioni, più d’una: cardiomiopatia ipertrofica, aneurisma, trombosi polmonare. Il Benfica ritira dal mercato la maglia numero 29.
Da questo viaggio veloce nel cimitero dei calciatori si può notare che non è la categoria che mette al riparo. Non ci sono ricchi e poveri. Si muore in campionati d’alto livello, in campionati minori in cui a bordo campo manca il defibrillatore, in una partita fra Nazionali. Anche qui, a Lione, ed è forse più grave, manca il defibrillatore. Forse, perché l’assenza è grave sempre e comunque. Un defibrillatore costa poco e può far molto sia per i giocatori sia per i tifosi in caso di attacchi cardiaci. A Lione, nel 2003, per la Confederation Cup, giocano Camerun e Colombia. A un quarto d’ora dal termine Marc-Vivien Foé, centrocampista, 28 anni, del Lione ma in prestito al Manchester City, contrasta Cordoba, poi scivola a terra. Il terzino interista capisce subito la gravità del caso, fa fermare il gioco, Foé esce in barella ma sarà vano ogni tentativo di rianimarlo. Il City ritira la maglia numero 23. Era stato Foé a segnare l’ultimo gol nel vecchio Maine Road. Causa della morte: spropositato sviluppo del ventricolo sinistro. Per Andrea Cecotti, 25 anni, giocatore della Pro Patria di scena a Treviso nel 1987, trombosi della carotide. Aveva chiesto il cambio sentendo un formicolio alla gamba. Già in coma negli spogliatoi. Morto dopo sei giorni. Mai chiarita invece la morte di Giuliano Taccola, attaccante della Roma. Helenio Herrera, l’allenatore, lo obbliga a seguire la squadra nella trasferta di Cagliari, anche se non è in grado di giocare. Reduce da un intervento alle tonsille, rientro affrettato, febbre persistente, dopo la partita si stende su un lettino dello spogliatoio dicendo che fatica a respirare, e saranno le sue ultime parole.

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