Don Matteo Zuppi «Usiamo la crisi per far ripartire l’ascensore sociale»

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L’Arcivescovo di Bologna si racconta in un’intervista: «La cosa peggiore è che ci siamo abituati all’ascensore rotto. Non si può vivere così. Dobbiamo ripartire dalla scuola e dal lavoro». E rivendica il ruolo sociale della Chiesa: «L’umanità non può mai essere messa in discussione per motivi politici»

Se qualcuno pensa che incontrare il Cardinale di Bologna sia un’impresa ardua si sbaglia. Niente di più facile. Il palazzo dell’Arcidiocesi di via Albatella da quando è abitato da don Matteo Zuppi è un via vai di persone. Nella città di Lucio Dalla e Alessandro Bergonzoni, delle tagliatelle e della mortadella, lo conoscono tutti come don Matteo.
A chiamarlo Eminenza sono ben pochi. Non è raro incontralo mentre sfreccia in bicicletta tra la gente. Il Cardinal Zuppi, nonostante il titolo, somiglia ben poco a certi porporati vaticani. Lui non ha dimenticato i poveri, i migranti, i clochard con i quali ha passato la maggior parte della sua vita alla comunità Sant’Egidio di Roma.
Basta nominargli Scarp de’ tenis perché spalanchi le porte del suo studio, ricolmo di libri, di fotografie e di icone. Su una poltrona c’è anche la bandiera della Pace del Sermig di Torino.
È lui ad accogliermi con un’irresistibile voglia di stringermi la mano. Don Matteo non sta dall’altra parte della scrivania ma davanti a me. Nessuna barriera, nessuna differenza: «Ci diamo del tu, vero?», mi precisa. Patto fatto. Dare del “tu” al possibile futuro Papa è un dono.


Vorrei partire da un’osservazione semplice ma non banale. In un mondo dove tutti hanno la passione per il Dott. prima del nome o per il Mons. mi ha stupito che ti fai chiamare semplicemente don Matteo o ti firmi nelle mail solo con il tuo nome di battesimo. È un richiamo all’essenzialità?
Per me è una dimensione di fraternità che per mia fortuna mi ha sempre accompagnato. La fraternità è il vero rispetto che si dà all’altro. Preferisco di gran lunga perdere qualche distinzione che mantiene la distanza e dà qualche garanzia, mettendo in gioco il rischio della fraternità. Essendo cresciuto in una comunità la dimensione di fraternità è stata prevalente. La normalità nelle relazioni ha sempre fatto parte della mia vita.


Quando si parla di te non si può fare a meno di accostarti alla Sant’Egidio e al processo di pace in Mozambico. Ultimamente ci siamo dovuti confrontare, di nuovo, con un altro conflitto, quello tra la Palestina e Israele. Forse in quest’ultima vicenda manca qualcuno che si faccia carico di una mediazione o pensi che nessuno sia interessato a negoziare in questo caso?
In questa vicenda c’è una storia di sofferenza talmente profonda e intrecciata che ormai sono passate tre generazioni dall’inizio del conflitto. Bisogna cercare soluzioni che riguardino il presente e che siano possibili. Penso non solo alla storia, ma anche alle definizioni delle Nazioni Unite che tra l’altro sono chiarissime. La Chiesa come sempre spingerà per trovare una soluzione che garantisca la convivenza. Già Giovanni Paolo II, quando iniziarono a costruire il muro di separazione, intervenne dicendo che il Medio Oriente ha bisogno di ponti non di muri. Questa affermazione del Pontefice polacco resta vera ancora oggi: soltanto investendo nel dialogo si può trovare una risposta ad un conflitto. Il dialogo tra religioni deve fare la sua parte. Le Chiese devono essere motivo di incontro. Le religioni non giustificano mai la violenza.


All’inizio della pandemia c’erano due mantra: “Ne usciremo migliori” e “Andrà tutto bene”. Ho letto la tua nota pastorale Il seminatore uscì a seminare: dedichi un capitolo al non sprecare la pandemia. “Peggio di questa crisi – scrivi – c’è solo il dramma di sprecarla”. Non pensi che questo rischio si sia rivelato, purtroppo, realtà?
Siamo ancora in tempo. In realtà è questo il momento di capire se l’abbiamo sprecata. Se riprenderemo la nostra vita come se niente fosse, senza cambiare ciò che necessariamente dovremo modificare, allora avremo perso un’occasione. Come se di fronte ad un terremoto uno lascia le macerie a terra e riprende a vivere come se niente fosse. La pandemia ha scosso le nostre esistenze: sono morte così tante persone che è come se fosse scomparsa una città intera e poi ci sono state le conseguenze interiori, psichiche. Credo, tuttavia, che siamo ancora in tempo: adesso si gioca e si vede la consapevolezza con la quale costruiremo il futuro. Se riprendiamo facilmente i soliti giochi, le piccole convenienze, l’opportunismo che condiziona le varie scelte, vuol dire che non siamo cambiati. Se ne esce soltanto insieme. Capisco che possono sembrare frasi di rito ma è così: siamo tutti sulla stessa barca. Non possiamo ritornare a pensare che si possa lasciare indietro qualcuno oppure che possiamo permetterci di continuare ad avere un lavoro segnato dal precariato. Non basta più dire “l’importante è che ci sia lavoro”; oggi dobbiamo anche dire quale voglio, come voglio che sia.


In occasione dello scorso primo maggio hai detto una frase che mi ha molto colpito: “L’ascensore sociale non funziona più. Va solo in discesa ma non in salita”. Cosa non ha funzionato? Il reddito di cittadinanza non è servito? Al di là della pandemia, tra qualche anno, ci troveremo di fronte a un aumento della povertà?
L’ascensore sociale si è rotto per tanti motivi. La cosa peggiore è che ci siamo abituati all’ascensore rotto. Non si può vivere così. Questo comporta tante conseguenze. L’ascensore sociale scende verso il basso per tutte le fasce di nuova povertà dovute alla pandemia. In questo Paese non ha funzionato il rapporto scuola-lavoro: studiare non significa più poter migliorare e spesso ci troviamo di fronte ad un fenomeno di abbandono scolastico che ci deve preoccupare. Il reddito di cittadinanza è servito ma non per lo scopo per il quale era nato. È stato utile a tanti per avere un sollievo; è stato uno stabilizzatore ma non ha avuto la funzione di ascensore. Non abbiamo bisogno dell’analgesico ma di una soluzione al dolore.


Papa Francesco con la Laudato Si’ ha avuto il coraggio di porre al centro dell’attenzione un tema che in Italia è un po’ accantonato e spesso persino fuori dall’agenda politica: l’ambiente. Non c’è il rischio che sia un’utopia o un miraggio irraggiungibile?
Se fosse così non ci sarebbe futuro. Il problema dell’ambiente non è un lusso per patiti del tema. È l’unico modo per andare avanti, per permettere che la Terra non si rovini. Qualche volta abbiamo trattato il tema dell’ambiente come un accessorio importante ma di cui si poteva tranquillamente fare a meno eppure senza l’ambiente non c’è vita umana. Papa Francesco è stato molto determinato, ha parlato di “conversione ecologica” perché se si perde questa possibilità non ce ne sono altre.


Alex Langer parlava anche lui di “conversione ecologica”. Da dove cominciamo a farla?
Dagli stili di vita. Se vivo il mio rapporto con l’ambiente in maniera dissennata, bulimica, consumista ed egocentrica tolgo qualcosa agli altri. Tutti possono fare qualcosa per l’ambiente non solo chi decide dal punto di vista politico ed economico.


“Quando si offre da mangiare ai poveri tutti mi chiamano santo ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo allora tutti mi chiamano comunista”. Vale anche per te questa frase dell’arcivescovo Hélder Camara?
Quello che diceva Hélder Camara 40 anni fa, in uno scontro ideologico così forte, oggi non c’è. C’è una tentazione: siccome parli del sociale non sei spirituale. Oggi paghiamo l’inquinamento di alcune semplificazioni molto pericolose: difendere la vita degli stranieri significa fare politica? No. La politica deve risolvere il problema mentre sta alla Chiesa chiedere che la vita sia sempre garantita. L’umanità non può mai essere messa in discussione per motivi politici.


Sono ricominciati gli sbarchi. Proprio tu hai scritto: “Non fare nulla è accusare senza risolvere, diventa colpevolezza”. Pensavi all’Europa?
Certo. Il problema non è solo italiano ma europeo. Lasciare la responsabilità all’Italia è ipocrita. C’è un’ipocrisia europea che non fa bene all’Italia e allo stesso Vecchio Continente. Vengono messi in discussione i fondamenti dell’Europa stessa.


Ho letto il tuo libro Odierai il prossimo tuo. Oggi sembra che l’odio la stia facendo da padrone. C’è chi odia gli omosessuali, gli stranieri, i clochard. Qual è la risposta a questo odio?
Il contrario comincia con la conoscenza. Capire che l’altro sono io non è solo cristiano ma è molto umano. Ama il prossimo tuo come te stesso è il modo per amarsi. L’odio verso l’altro rovina la tua vita, spersonalizza, rende l’altro un oggetto, gli toglie dignità umana. La giustizia riparativa è la vera vittoria sull’odio, ti toglie il veleno profondo. Purtroppo c’è molto inquinamento, c’è un’amplificazione digitale dei meccanismi di odio, anche una spersonalizzazione. Puoi pensare di permetterti di odiare come se questo non creasse conseguenze.


Tuo papà faceva il giornalista. Qual era il tuo sogno da piccolo?
L’astronomo. Studiavo, osservavo, guardavo le distanze, ero attratto dal calcolare l’incalcolabile. Se non avessi fatto il prete avrei fatto il professore. Scelsi lettere all’Università anche per questo. Altro sogno era quello di fare il fotografo: vedevo mio padre come sviluppava i rullini e restavo affascinato. Era un’arte magica.

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