Felice Gimondi

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Il ricordo di un amico e di un grande campione

Non è morto pedalando, Felice Gimondi, ma nuotando. Sempre sportivo, alla soglia dei 77 anni, con un cuore un po’ ballerino. Ho appreso la notizia ed è stato come prendere un pugno nello stomaco, mi sono parzialmente consolato pensando che il mio amico Felix era morto senza accorgersene, al suo corpo (“la mia azienda”, scherzava lui) era stata risparmiata l’agonia, l’anticamera lunga e penosa in cui il corpo si ribella, cede, s’arrende. Gimondi non s’è mai arreso. Ha vinto 143 volte, vittorie importanti. Se non avesse trovato Eddy Merckx sulla sua strada avrebbe vinto il doppio. Non è dimostrabile ma è probabile. È arrivato 56 volte secondo, 19 solo nel 1969. Sarebbe stato in tutto e per tutto il nuovo Coppi. Si era sbilanciata l’Equipe, non un giornale qualsiasi, dopo la Roubaix del ‘66: “Gimondi come Coppi”. Eravamo amici. “Io e te siamo cresciuti quasi insieme”, diceva lui ai tempi delle corse. Quasi. Non c’ero al Tour del ‘65, dove andò per sostituire un gregario di Adorni vittima di intossicazione da frutti di mare. L’anno prima aveva vinto il Tour dell’Avvenire. Al Giro aveva chiuso al terzo posto, dopo aver corso, come da copione, in appoggio al capitano Adorni. Il Tour non era nei programmi. «Non preoccuparti, corri la prima settimana e torni a casa, è tutta esperienza», gli aveva detto Luigi Salvarani. Già, ma al terzo giorno aveva addosso la maglia gialla e doveva continuare. Sui Pirenei Adorni si ritirò. E Gimondi vinse il Tour. C’ero il giorno che tornò a Sedrina. Un paesino all’imbocco della Val Brembana, nel pre-Gimondi famoso solo per una pala d’altare nella parrocchiale di San Giacomo, una Madonna con i santi, dipinta da Lorenzo Lotto. Felice aveva alle spalle una famiglia seria e di poche parole. Il padre, dopo aver sgobbato dieci anni in Brasile, aveva investito prima nel trasporto a cavalli, poi nei camion. Il primo, ricordava Felice, andava a legna. La madre era postina. Sul camion, non più a legna, salivano dopo essersi alzati alle 3 gli uomini di famiglia e andavano sul Ghisallo per veder passare il Giro di Lombardia. Felice era bartaliano, influenzato da uno zio, ma bartaliano si sarebbe dichiarato anche a fine carriera. «Coppi aveva più classe, ma Bartali era un duraccio, un mai morto, uno come me insomma. Un diesel, che aveva bisogno di un po’ per carburare. Come me».
Molti hanno dipinto Gimondi come simbolo della coraggiosa sconfitta. Non era esattamente così. Io quelle corse, quegli anni, li ho vissuti proprio dentro al ciclismo, vedendo correre Merckx e Gimondi ma anche andando a trovarli quasi tutti i giorni negli alberghi, durante il massaggio, o nel breve relax del dopocena. Merckx ogni tanto mi chiedeva una sigaretta e se la fumava di gusto, Gimondi mai. Era come un frate. Non dico della religiosità (ha sempre corso con un cordino alla caviglia, cordino benedetto di non ricordo quale santuario bergamasco) ma nella vita da atleta: a letto presto, niente fumo, niente alcol, moderazione a tavola, mai saltare un allenamento. Quando Gimondi è morto Merckx (anche lui col cuore ballerino) non è andato al funerale. Ha telefonato a Tiziana, la moglie di Gimondi. È andato a casa sua poche settimane dopo. E ha detto due cose, Eddy. La prima: «È morto anche un pezzo di me». Stessa frase detta da Bartali quando morì Coppi. Molti immaginano che tra due acerrimi avversari ci sia solo antipatia, se non odio. Non era così. Disse Felice: «In bici correvamo tutt’e due con il coltello tra i denti, ma giù dalla bici eravamo amici, si scherzava e si rideva. Una volta Eddy è riuscito a farmi bere una Coca con dentro Whisky, per dire. Cenavamo con le nostre mogli». Merckx mi disse: «Quando Felice si alza da tavola non ho bisogno di guardare l’orologio: è mezzanotte». Seconda cosa detta da Merckx alla notizia della morte di Gimondi: «Tanti parlano della fatica che è costata a Felice la voglia di starmi a ruota, della sua grande tenacia, ma pochi pensano alla fatica mia per staccarlo, o anche per batterlo in volata. È stato un avversario grandissimo, fortissimo e leale».
È giusto usare quei due superlativi. Stiamo parlando di un ciclismo in cui ci si sfidava da marzo a ottobre, e da marzo (Sanremo) a ottobre (Giro di Lombardia) i campioni c’erano e si davano battaglia. Una settimana dopo la Roubaix da leggenda, Gimondi vinse per distacco la Parigi-Bruxelles. Lì c’ero. A un collega più anziano della Gazzetta era scaduto il passaporto così mandarono me, non ancora ventunenne. Mi avevano trovato un posto sulla macchina della Dernière Heure, quotidiano belga, roba da toccarsi, tanto più che la macchina era nera e la scritta in caratteri dorati. Il collega belga sembrava Pampurio, l’autista un inglese muto. Davanti, 286 chilometri. Non una parola. Dopo 200 km sosta. On peut pisser. Meno male. E poi venne il bello. Su uno strappetto in pavé Gimondi allungò e vinse a mani alzate. A 25”, per dare l’idea, Willy Planckaert, Van Looy e Godefroot. Il giorno dopo, il mio pezzo apriva la prima pagina. Una volta ex corridore, Felix era più aperto, prima comunicava il necessario, spigolosamente essenziale, severo con i gregari ma anche con se stesso. Sapeva vincere da giovane ma anche da vecchio: il Mondiale a 31 anni, la Sanremo a 32, il Giro a 34. «Tieni conto che Merckx non solo era più forte di me, ma mi ha fatto cambiare il modo di correre. Prima che arrivasse correvo un po’ come lui, con l’istinto dell’attacco, anche solitario. Dopo, dovevo limitare i danni e correvo in difesa, ma sempre sperando di batterlo».
Per questo a chi non l’ha visto in azione dico che Gimondi non è stato un grande perdente ma un grande campione. Perché è da campioni battersi contro un rivale più forte e soccombere sempre a testa alta. Perché lo sport non ama le mezze misure. Si deve lottare, lottare sempre, lottare comunque, per rispetto di sé, degli avversari, delle leggi non scritte. Non arrendersi mai, arrivare fino in fondo, non ritirarsi, non cercare scuse, tenere sempre accesa la speranza. Questo ha fatto Gimondi. Un hombre vertical, questo era. Nel mio bosco, sempre più rado, un altro albero caduto.

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