Gaetano Scirea

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Il ricordo è vivo e brilla come un timido sorriso

Pioveva, ma neanche tanto forte, quel 3 settembre 1989, sulla superstrada che collega Katowice a Varsavia. L’auto, una Fiat 125, era guidata da Henrik Pajak, al suo fianco l’interprete Barbara Januskiewicz. Dietro, con Gaetano Scirea, è seduto Andrzej Isdebsky, dirigente del Gornik Zabrze. Il Gornik, la squadra dei minatori, è stato sorteggiato in Coppa Uefa come avversario della Juventus. Una squadretta contro una squadrone, ma Boniperti ci va coi piedi di piombo, non si sa mai. Un osservatore deve andare in Polonia, e così parte Scirea, il vice di Dino Zoff, l’allenatore. Un viaggio superfluo, secondo Scirea e anche secondo Zoff, ma utile secondo il presidente. L’aereo per l’Italia parte da Varsavia alle 16.20, ma Scirea non ci salirà. Alle 12.50 in località Babsk la strada si restringe a una sola corsia per lavori in corso, l’autista azzarda il sorpasso di due camion ma calcola male le distanze e va a sbattere contro un furgone. Nell’urto si apre la portiera di destra, Isdebsky rotola fuori ed è il solo a salvarsi. Gli altri, chiarirà l’autopsia, non riportano ferite nell’urto, ma bruciano vivi. Nel baule quattro taniche di benzina prendono fuoco. Portare a bordo carburante era pratica molto diffusa, non esistevano molti punti di rifornimento. Sarà l’anello nuziale a consentire il riconoscimento di Scirea.
È domenica, la Juve gioca a Verona e vince facilmente. Si ferma il pullman oltre Brescia, tutti a cena. Quando arrivano a Torino, il casellante dice che dev’essere capitato un incidente a Scirea. Ma figuriamoci, dice Zoff, Gaetano sarà già a letto che dorme. Ma quando il pullman scarica i giocatori allo stadio Comunale, dove hanno parcheggiato le loro auto, ci sono tantissimi giornalisti ad aspettarli. Non è normale. Allora Zoff capisce, e tira un calcio al pullman. Lui e Scirea erano fatti per intendersi, i compagni li chiamavano i Muti, perché parlavano il minimo indispensabile e solo quando avevano qualcosa da dire. In Nazionale dividevano la stanza d’albergo, definita la Svizzera perché piena di calma e tranquillità. Dopo la vittoria nel mondiale 1982 tutti gli azzurri erano andati a festeggiare in giro per Madrid, tutti tranne loro due. Erano saliti in camera, avevano chiamato casa, come premio si erano concessi un paio di sigarette e una partita a carte. Erano fatti così.
Gaetano da bambino era interista. Da ragazzino giocava attaccante, poi centrocampista col sogno della maglia numero 10, quella di Suarez e Rivera. Ma esordì in A e divenne campione del mondo giocando da libero, ruolo per cui era ritenuto troppo buono, cioè poco cattivo. Nelle giovanili dell’Atalanta arrivarono a promettergli un premio extra se si fosse fatto ammonire per un’entrata scorretta, ma Gaetano era il calciatore più corretto mai visto a memoria d’uomo, anche mia. Per capirlo basta rivedere le immagini di Francia-Italia, al mondiale argentino del 1978. Pronti, via, Didier Six in fuga sulla sinistra, Scirea gli va incontro ma frena lo slancio, tira in dentro lo sterno, quasi trattiene il fiato, tutto pur di non atterrare Six. Sarebbe stata ammonizione? O espulsione? Lui non aveva fatto questo calcolo. Non era nel suo stile, semplicemente, falciare l’avversario. Six crossa dal fondo per Lacombe, gol. Poi l’Italia vinse 2-1, ma è un dettaglio. Un difensore così pulito eticamente e stilisticamente non l’avevamo mai visto e, temo, non lo vedremo più. Sedici stagioni ad alto livello, nessuna espulsione, nessuna squalifica. Con la Juve 563 partite complessive, 7 scudetti, in campionato 396 partite con 28 gol (tanti, per un libero), una Coppa dei Campioni, quella tragica dell’Heysel, una coppa Uefa, una Coppa delle Coppe, una Coppa intercontinentale, 2 Coppe Italia. In azzurro 78 partite con 3 gol, il quarto posto nel mondiale ‘78 e la vittoria nel 1982. Sono numeri importanti e dicono la grandezza del calciatore, ma non dell’uomo. Sentiamo Zoff: «Molti dicono che in campo ci si trasforma. Stupidaggini. Gaetano in campo era uguale al Gaetano fuori campo, stessa serenità, chiarezza, pulizia. In campo c’è meno spazio per l’intelligenza, viene fuori l’istinto, il profondo. E il profondo di Scirea era Scirea».
Voglio aggiungere la sensibilità, raccontando qualche episodio. Scirea nel ‘74 passò dall’Atalanta alla Juve in cambio di 700 milioni, dei cartellini di Marchetti e Mastropasqua e della comproprietà di Musiello. Vinse subito il primo dei sette scudetti e andò a festeggiare con la squadra in discoteca. Sulla via di casa, alle 6 passate, pensò di fermarsi all’edicola per comprare i giornali, ma lì vicino c’era la fermata del bus che portava in Fiat gli operai e lui tirò dritto. E disse. «Mi vergognavo a farmi vedere vestito da sera la mattina presto, quando la gente andava a lavorare». Diede l’addio al calcio il 15 maggio 1988. La moglie Mariella gli aveva organizzato una grande festa a sorpresa, ma lui si era impegnato, con Trapattoni, per inaugurare il torneo di calcio dell’oratorio a Cinisello Balsamo, e lì andò. La grande festa poteva aspettare.
Lo intervistai la prima volta a Bergamo. Si era infortunato Savoia, il libero titolare, e lui lo avrebbe rimpiazzato a Cagliari. Contro Gigi Riva finì 0-0. Ricordo che mi disse che nel calcio nessuno può sentirsi arrivato, che lui avrebbe fatto volentieri il maestro elementare, e mi disse grazie lui per primo, prima che glielo dicessi io. Mi parlò di suo padre Vittorio, operaio, dell’educazione che gli aveva dato. «Non stupitevi se Gaetano non salta un allenamento. Io in 38 anni di Pirelli non ho saltato un giorno», disse un giorno Vittorio. Ai genitori aveva promesso il mitico pezzo di carta. Lo ottenne a 34 anni, all’istituto magistrale Regina Margherita. All’esame scritto di italiano scelse di commentare una frase di Norberto Bobbio: “Cultura significa misura, ponderatezza, circospezione”.
È stato il più grande nel suo ruolo, l’interprete più puro e intelligente, giocatore a tutto campo. Baresi? Beckenbauer? Bravi, ma non comincio nemmeno a discutere. Rivedete il 2-0 alla Germania: doppio scambio nell’area tedesca tra Scirea (colpo di tacco) e Bergomi, due difensori che in teoria avrebbero dovuto difendere il fortino dell’1-0. Invece costruiscono il 2-0, Scirea serve Tardelli sulla corsa, sinistro dal limite che batte quel carognone di Schumacher. Nato a Cernusco sul Naviglio, poi definito il paese dei liberi, cresciuto a Cinisello Balsamo, Scirea era stimato in tutto il mondo, era così bravo che non aveva bisogno di essere cattivo. È quasi scomparsa la cultura, l’educazione, l’insegnamento delle famiglie operaie, perché stanno scomparendo gli operai. E troppo presto è scomparso lui, Gaetano, che avrebbe meritato una vita più lunga. Il figlio Riccardo aveva 12 anni, era al mare coi nonni a guardare La Domenica sportiva e venne a sapere dalla voce di Sandro Ciotti che suo padre era morto. Ma il ricordo è vivo, sa di erba, di pane fresco, di aria pulita. Il ricordo è vivo e continua a brillare come un timido sorriso.

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