Giacomo Poretti «Racconto il turno di notte. E dico grazie agli infermieri»

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Il celebre comico racconta i suoi undici anni in corsia, come infermiere. Dedizione, sacrificio, impegno. Giacomo Poretti racconta in un volume il suo Turno di notte.

Dal 1974 al 1985. Undici anni in ospedale, da infermiere. A pulire pavimenti e cessi, cambiare padelle, fare punture, litigare coi parenti, consolare i malati. Un mestiere difficile, dal punto di vista sociale poco considerato.
Poi è arrivato il Covid e gli infermieri e le infermiere sono diventati eroi nazionali. La verità spesso è nel mezzo e Giacomo Poretti, la racconta con il suo consueto cinismo sentimentale a partire dai suoi undici anni in reparto. Nel libro Turno di notte (Mondadori) Poretti contribuisce a restituire la giusta dignità a una professione difficile, faticosa, usurante, ma straordinariamente umana, con tutta la bellezza e tutta la miseria che questa parola sa raccontare.


A chi andrebbe il suo ringraziamento se tornasse indietro, agli anni passati a lavorare in ospedale?
Penso che vada cercato tra le righe del libro questo ringraziamento. Ma sicuramente a quelli in cui ho visto la dedizione al sacrificio, al lavoro. Fra queste persone ricordo due suore che mi hanno colpito perché lavoravano col sorriso sulle labbra benché il lavoro si svolgesse, e si svolge tuttora, in mezzo a grandi difficoltà e a situazioni molto complicate e a volte drammatiche. Senza nessuna necessità di esprimerlo con le parole, loro facevano i fatti, mantenevano sempre una certa lievità, anche di fronte agli eventi più terribili.


Cosa ha pensato quando vedeva le immagini degli infermieri sconvolti dalla stanchezza, in questa pandemia?
È chiaro che in quei mesi gli infermieri hanno raddoppiato il lavoro, ma mi hanno fatto ricordare uno standard di fatica che è abbastanza usuale, soprattutto in certi reparti, come la rianimazione ma anche altri. In quei giorni li guardavamo come eroi, ma spesso è la normalità. Ricordo dei turni di lavoro dove un inserviente dopo 8 ore usciva sfinito quasi come quelli fotografati, che non dimentichiamo, capitava non dormissero per 72 ore.


La morte si allontana se si vive a stretto contatto con essa?
La realtà ospedaliera sicuramente la rende più vicina, più consueta, ma non per questo accettabile. Né per chi cura, né per chi è curato. Io credo che gli stessi malati abbiano un dialogo intimo e costante, quotidiano, con la morte e con colui o coloro che hanno generato questa vita che prevede la morte. Insomma, è un interrogarsi. A me interessava segnalare, sottolineare che esiste sempre un dialogo continuo, fitto, fatto di rabbia, di imprecazioni, di suppliche e di preghiere, e anche di accettazione della morte. Un dialogo sempre irrisolto.


Da sempre gli infermieri odiano i parenti. Anche il protagonista?
I parenti sono una categoria variegata. Diciamo che il parente migliore è quello che non dà problemi, non chiede mai, quello a cui va tutto bene: peccato che non esista. Ci sono i parenti, quelli veri, che sono ansiosi, o che non si fidano, quelli che sanno loro la cura giusta, e così via. Ma quello che dà più fastidio all’infermiere è il parente che ignaro degli orari di visita (o se anche li conosce fa lo stesso) pensa di essere invisibile e alle 10.30 del mattino esce dall’ascensore e trova il pavimento bagnato, allora saltella per tutto il reparto sperando di non essere notato, ma l’inserviente lo becca e lo caccia via.
Turni impegnativi, paga scarsa, poca gratitudine sociale. Cosa resta di bello in questa professione?
Ci sono le relazioni, è un lavoro sì, di fatica, ma anche di incontri con persone particolari, a partire dai parenti, dalle suore, gli stessi malati. I medici, i colleghi: è un mondo pieno. C’è poi il lato, per così dire, tecnico, che è anche affascinante. Tocchi con mano l’applicazione sul campo della scienza, dell’intelligenza umana, della cocciutaggine umana, della fantasia anche, perché serve fantasia per scoprire malattie e rimedi. E poi hai a che fare con dei comportamenti che non vedi nella vita normale, se non molto attenuati, perché una persona che è malata gravemente, spesso cambia molto rispetto a come era.


Lei ha lavorato da infermiere negli anni ’70, periodo di grande protesta sociale nel nostro Paese. Cosa le manca di quel periodo?
Questa domanda mi dà la possibilità di citare un autore che mi era caro, Pasolini. Ecco, anche se erano anni feroci, rispetto ad allora manca una certa ingenuità nelle persone: Pasolini la definiva una sorta di purezza. In quegli anni violenti – di contrapposizione sociale fortissima – però sentivo che c’era una specie di onesta ingenuità, di purezza appunto, che adesso non c’è più, o perlomeno, la sento più raramente, la vado cercando come i cercatori l’oro. Siamo tutti intelligenti, tutti informati, programmati, ma manca questa ingenuità, questa semplicità. La semplicità è una cosa a cui faceva riferimento Pasolini e a distanza di 40 anni la comprendo meglio oggi che non allora.


L’ironia le è stata di aiuto?
Sinceramente all’epoca ero molto diverso, sono cambiato. Io non sono mai stato peraltro uno molto ironico, un simpatico. In particolare, in ospedale non credo che gli ammalati, abbiano tanta voglia di ridere e se cerchi di far ridere, si infastidiscono ancora di più. Lo racconto un po’ nel libro, il lavoro più difficile, che spesso è sotterraneo, quasi inconscio, è la fatica di stare in equilibrio tra il cinismo e la completa identificazione con il malato. Entrambe le cose sono comportamenti che fanno male e non a caso la caposala, la suora, insegnava una cosa che mi sembra fondamentale: “un bravo infermiere deve trattare l’ammalato come se fosse un proprio amico, ma non deve affezionarsi altrimenti rischierebbe di perdere svariati amici a settimana”. Quindi è chiaro che è un equilibrio molto scivoloso tra il cinismo e l’affezione, è un esercizio molto duro.


Il suo libro però non è nato dopo il Covid, è una esigenza che nasce prima della pandemia.
Sì, infatti già nel 2019 avevo allestito questo spettacolo che si chiama Chiedimi se sono di turno, che è stata la scintilla da cui è partito il libro.

Il 9 novembre Giacomo Poretti
presenterà il suo nuovo libro
al teatro Oscar a Milano.

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