I due Enzi, e i regali a un paese meno narciso

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Sabato sera d’estate. L’intitolazione di un centro sportivo a Bearzot, 40 anni dopo il vittorioso Mundial di Spagna. Il teatro-canzone, che continua ad attingere all’immortale repertorio di Jannacci. Il Vecio e il Dutur: strana coppia, forse per niente coppia. C’è un filo che li lega?
A ben vedere sì. Un filo che tiene dentro tutti

Sabato 9 luglio, verso sera. A Paderno d’Adda, due passi dal cimitero in cui è sepolto (tomba di famiglia della moglie), si intitola il centro sportivo – cerimonia sobria ma commossa, nello stile del personaggio – a Enzo Bearzot: condottiero di poche parole, che 40 anni prima aveva guidato la Nazionale di calcio più bella di sempre alla vittoria più bella di sempre.
Sembra incredibile, ma l’impianto di Paderno è uno dei pochi, nello smemorato Stivale, dedicati a un uomo che ha regalato allo sport italiano il trionfo più coinvolgente e travolgente, esondato nelle piazze di un intero Paese come balsamo di unità e felicità, dopo anni cupi, impiombati dalla violenza e dall’austerità.
Sabato 9 luglio, tre ore e mezza dopo. Reduce dall’intitolazione bearzottiana assisto, in una piazza del mio Comune, a una serata di teatro-canzone. Sul palco l’ironia e l’intelligenza di Davide Giandrini, impiegate per attingere al vasto, magmatico, irregolare ma ancor’oggi stimolante repertorio di Giorgio Gaber e di quell’altro Enzo, il medico-cantautore-attore milanese, uno dei cui capolavori dà il nome a questo giornale.
Sabato d’estate. Bearzot e Jannacci. Coppia inedita, di sicuro strana. Forse per niente coppia. L’allenatore e il compositore. Il Vecio e il Dutur. L’emblema della serietà, che sull’etica del lavoro e della lealtà fonda un gruppo capace di scalare il mondo. L’artista sgangherato (in apparenza), irresistibili vette comiche e ben celate nicchie liriche, canto innamorato e disilluso dell’inviolabile dignità di ogni consimile, fosse anche l’ultimo barbun, sul vialun per l’Idroscalo. I due Enzi. Praticamente coetanei. Magari mai incontratisi. C’è un filo che li lega?
Nome di scarso appeal
Al giorno d’oggi, quasi nessuno più chiama il proprio figlio Enzo (Vincenzo). Ormai è il 114° nome maschile più comune in Italia, e chi lo porta è probabilmente venuto al mondo un (bel) po’ di decadi fa. Nome di scarso appeal, da Paese rurale fattosi industriale. Epoca da non mitizzare. Ma nella quale la Penisola ha saputo ricostruir se stessa: i due Enzi, nati a cavallo tra le due guerre, appartengono alla generazione che si è rimboccata le maniche, levandosi su un panorama di macerie, fino a conseguire uno sviluppo tra i primi al mondo.
Tipi umani agli antipodi, Bearzot e Jannacci incarnano però un tratto comune di quella nostra epoca d’oro. Poca propensione all’apparenza, tanta attenzione alla sostanza. Scarso senso della popolarità, spiccata predilezione per l’autenticità. Ricerca ma non spasmodica del successo, soprattutto se fine a se stesso: perseguito piuttosto come benedizione di una fatica mirata, manifestazione della bontà di un’idea, sigillo di una produzione di ingegno.
Insomma: niente muscoli-ostensorio di tatuaggi infestanti, niente canzoni oscurate da look noiosamente e puerilmente trasgressivi. Si giocava, si suonava, si calciava, si componeva: il mestiere di una vita, impresa appassionata e continuamente affinata, non ingabbiata dalla prigionia solipsista dei like, dei follower, delle ricadute d’immagine.
Un’Italia, una società, un Paese di Enzi meno smaliziati e narcisi. E forse proprio per questo capaci di regalare a un popolo la gioia più pura, la festa più collettiva, il brivido di una canzone sincera. Che non smettono di chiamar dentro tutti. Anche, e soprattutto gli ultimi.

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