Il ceto medio sparito insieme al fumo delle ciminiere

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Negli anni ’60 non è che tutto fosse rose e fiori, ma la capitale del Nord era una mitologica città-fabbrica e costituiva un approdo sicuro per chi aveva voglia di lavorare. Per chi si lasciava alle spalle povertà, a volte secolari

Milano città del turismo è una realtà, ma sembra anche una fantasia. Specie per chi ricorda “la Milano” delle fabbriche, i fumi delle ciminiere, i bagliori arancioni verso Sesto San Giovanni e Cinisello delle fonderie e degli altiforni. Adesso quel color arancione, con sfumature rossastre, sembra essere finito negli spritz che campeggiano sui tavoli dal Duomo ai Navigli, dall’Isola a Brera.
Se tutto cambia e, che lo si accetti o no, è difficile opporsi alle onde che si abbattono su ogni epoca, Milano però dovrebbe farsi una domanda: negli anni ’60 non è che tutto fosse rose e fiori, ma la capitale del Nord era una mitologica città-fabbrica e costituiva un approdo sicuro per chi aveva voglia di lavorare. Per chi si lasciava alle spalle povertà, a volte secolari. Per chi aveva la capacità di sognare e sognarsi e …realizzare. Una città delle ambizioni, delle possibilità e – sottolineiamolo – del cambiamento.
È stato il ceto medio, formato dai lavoratori, che ha reso Milano ricca e solida e fatto diventare le famiglie milanesi storiche, già con conti in banca e proprietà, così influenti.
Oggi quel ceto medio, che sapeva fare sacrifici, è sparito insieme al fumo delle ciminiere, ma mentre arrivano i turisti, Milano si sveglia in questo autunno rendendosi conto che gli affitti sono diventati insostenibili per molte famiglie; che i lavori che si trovano o sono di alto livello (ingegneri uber alles) oppure sono precari e – va detto ai titolari di bar e ristoranti – anche sottopagati; e che quel sentirsi tutti sulla stessa barca, tipico degli anni del boom, si è perso, sopravvive nello spirito di chi si dedica al volontariato.
Quindi Milano dove sta andando? Verso una migliore qualità della vita in generale o verso una migliore qualità della vita solo per chi ha i danée?
L’Expo 2015 è stato uno spartiacque. Era stato dedicato al cibo nel mondo e alla sostenibilità. Tutto ha funzionato molto bene, in quell’Esposizione, e ha seminato una curiosità mondiale verso una Milano vivibile, allegra, godereccia. Una meta da vivere anche grazie alle sue radici solide: la Scala, Brera, i musei, i ristoranti, i negozi, i cocktail, gli angolini segreti, quell’immensità che sono il Cenacolo e le tracce del passaggio di Leonardo, vigna compresa. Ma questo arrivo dei turisti, moltissimi in canotta e ciabatte, involontariamente fa riflettere sul presente di chi a Milano vive, lavora, studia, si ammala, si sposta. Persino sulla denatalità milanese in aumento: se non si attirano più i lavoratori che qui mettono su casa e famiglia, la crescita della città su che cosa può basarsi? Sull’aumento del costo delle case al metro quadrato? Sul ristorante stellato dove si cena con 600 euro a testa?
Mentre d’estate, specie ad agosto, arrivavano auto con targa tedesca, inglese, olandese, Milano ha registrato la più grave strage di ciclisti: morti in centro e in periferia, travolti dai camion e dalle betoniere dei mille cantieri. Milano, quindi, così aperta sul mondo, e così attraente per il mondo, sta pagando un tributo al suo cambiamento: ma è – questo il punto – un cambiamento che porta a che cosa? A rispettare di più il lavoro e la salute, o a rispettare di più il denaro e il potere? La domanda non riguarda solo noi, nel mondo, certo: ma intanto qui qualche risposta vorremmo trovarla.

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