Il grande ciclismo

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Tra diffidenza, etica, oreillette e rimpianti

Il grande ciclismo ricomincia in un’atmosfera che sta tra la diffidenza e il rimpianto. E con un enorme punto interrogativo: l’antiasmatico assunto da Chris Froome nella Vuelta 2017 ha portato a una prima sentenza di positività, ma si può parlare di doping? Probabilmente no, ma intanto perché tarda tanto il secondo verdetto? Il carrozzone è già ripartito dall’Australia e sarebbe utile sapere se per Froome ci sarà squalifica oppure no e, se sì, quanto lunga. I primi a volerlo sapere sono gli organizzatori del Giro d’Italia, che già avrà i suoi problemi con la partenza da Gerusalemme e non avrà al via Nibali né, probabilmente Aru.
Fermiamoci un poco su questi due nomi. Sono i nostri migliori corridori, ma preferiscono il Tour perché ha un maggior ritorno mediatico. Certamente lo preferiscono i loro sponsor: per Nibali sono del Bahrain, per Aru di Abu Dhabi. Nelle 18 squadre del World Tour non ce n’è una italiana. Troppe incognite, troppi rischi, troppe spese. World Tour ha mondializzato il ciclismo, ma in un certo senso l’ha divorato. Nascono nuove corse, nei nuovi territori, sui mercati da conquistare, ma ne spariscono in numero peggiore, nella vecchia Europa, che è, non dimentichiamolo, la culla della bicicletta: negli ultimi 10 anni, cancellate 25 corse per professionisti solo in Italia. Gli sponsor si squagliano e gli organizzatori meno potenti non ce la fanno a coprire le spese. Per le squadre che appartengono all’élite i costi sono elevatissimi. I paperoni sono quelli di Sky, che ci tengono a essere primi dovunque e naturalmente lo sono nella classifica degli euro: 35 milioni l’anno. La concorrenza sta, in alcuni casi, molto sotto la metà: sui 7/8 milioni. Sky non bada a spese, come luogotenente di Froome ha ingaggiato corridori che altrove sarebbero capitani: da Thomas a Porte a Landa. Ma Sky, esasperando la ricerca tecnologica e allestendo squadroni che fanno il bello e cattivo tempo, danneggia il ciclismo. Questa è l’idea di Beppe Saronni, e non solo sua. Con una squadra che, a volte, sembra formata da automi e non da esseri umani, l’estro, l’improvvisazione, la fantasia, la fuga audace, tutto è condannato alla sconfitta, oppure non previsto dal copione,quindi non va in scena. Che succede, allora? Che così la corsa è come catanecciata, non più una serie di attacchi come fuochi d’artificio. Alla sua gestione, che è ordinaria amministrazione, provvede la squadra del leader se l’arrivo è in salita, le squadre dei velocisti se l’arrivo è in pianura. Tutto chiaro, e anche piuttosto noioso.
Sull’eccesso di tecnologia la penso come Saronni, l’ho detto prima di lui e sono in buona compagnia. Penso a David Lappartient, francese, che nelle elezioni di Bergen, l’anno scorso, ha sommerso il presidente uscente, Brian Cookson, con un secco 37-8. A separarli non tanto l’età, 44 anni il francese, 17 di più Cookson, quanto la visione di quel che sarà il ciclismo. Sempre più tecnologico, organizzato e divulgato nel mondo per Cookson, sempre più attento alle sue radici, alle sue tradizioni per Lappartient, più deciso di Cookson nell’affrontare certi argomenti. Il doping che si ripresenta in altre forme (microdosi, autoemotrasfusione) e non sempre legate al sangue (si accenna qui ai motorini nascosti) ma anche l’abuso di strumenti a disposizione di corridori e ct. La radiolina, intanto, oreillettes in francese, pinganillo in spagnolo. Consente un dialogo continuo tra chi è sull’ammiraglia e chi pedala. Grazie a una strumentazione collocata sul manubrio un corridore conosce i battiti del suo cuore e quanta potenza sprigiona ad ogni pedalata.
Tranne forse negli sport motoristici, nessun atleta è monitorato in gara come un ciclista. Tanto. Troppo, diciamolo pure. Ogni sforzo è calcolato, ogni attacco suggerito. Questo fa male al ciclismo, e non si tratta di respingere la tecnologia ma semplicemente di arginarla, sempre che sia ancora possibile, perché il rapporto è sbilanciato, perché il corridore, grande o piccolo che sia, è ridotto ad automa che esegue gli ordini. Addio all’improvvisazione, all’imprevisto, e fin qui chi legge potrebbe pensare al lamento di un anziano che vede cambiare da così a così lo sport più popolare, umano e bello (doping a parte). Invece no, perché tra gli addii va aggiunto quello alla spettacolarità. Si sta disamorando il pubblico, non quello che si assiepa ai bordi delle strade ma quello che segue da casa, davanti alla tv. Seguire per quattro o cinque ore una fuga di tre corridori che sarà certamente annullata a pochi km dal traguardo, segue volata, non è il massimo della vita. Gli sponsor se ne sono accorti, gli organizzatori pure.
Anche l’Uci lo aveva capito. Prima misura, dal 1918: ogni squadra avrà un uomo in meno (da 9 a 8) nelle grandi corse a tappe e due in meno (da 9 a 7) nelle classiche di un giorno. Altri impegni: massimo rigore nella caccia ai truffatori del motorino nascosto, alle vecchie volpi del doping e ai furbetti delle facili autorizzazioni mediche. A Lappartient frulla in testa un’idea non banale, ma di realizzazione assai difficile, e l’ha buttata lì con una certa noncuranza: qualcosa di simile al salary cap, un tetto agli ingaggi. Nel calcio se ne parla da tempo, ma non si va oltre le parole. Come la riduzione degli organici, il tetto agli ingaggi andrebbe a colpire soprattutto gli interessi dei più forti, cioè di Sky. Gli toglierebbe un po’ di unghioni. Il richiamo alle radici è ampiamente giustificato dall’arrivo di dirigenti senza radici ma con montagne di soldi, che pare non guastino mai e aggiustino tante cose. In sostanza, si tratta di impedire che nel ciclismo si crei l’equivalente del Paris St. Germain o del Manchester United. Par di sentire un coro: “Indietro non si torna”. Ma è forse così che si va avanti?

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