Il Grande Torino

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70 anni fa finì la storia della squadra e cominciò la leggenda

Il 4 maggio 1949 finì la storia del Grande Torino e cominciò la leggenda. Ancora viva e forte, a 70 anni di distanza. E pensare che quella sciagura poteva essere evitata: bastava che il Torino perdesse a San Siro con l’Inter, seconda in classifica a 5 punti con 4 gare ancora da giocare. Novo, il presidente del Toro e della federcalcio, aveva cercato di convincere capitan Valentino Mazzola. Il capitano però aveva dato la sua parola al portoghese Francisco Ferreira, del Benfica, che aveva annunciato l’addio al calcio giocato e attraversava difficoltà economiche. Un’amichevole in suo onore, e una parte dell’incasso. «Ma se non perdiamo a San Siro, possiamo partire per il Portogallo?» chiese Mazzola al presidente, che acconsentì. Lui, malato, restò a casa. Come restò a casa il radiocronista Nicolò Carosio, per la prima Comunione del figlio. Così partì il Grande Torino, Grande con la maiuscola già prima di schiantarsi sulla basilica di Superga. In Italia dominava, la Nazionale era composta quasi totalmente da giocatori granata. A Lisbona vinse 4-3 il Benfica, ma il risultato non aveva importanza e comunque non fu il vero addio di Ferreira, che giocò altri addii. Mazzola che aveva saltato la partita di San Siro anticipata al 30 aprile, scese in campo con la febbre.
Erano partiti da Milano su un trimotore di fabbricazione Fiat, un G 212. E a Milano avrebbero dovuto concludere la trasferta, non si è mai saputo il perché del cambiamento di rotta. Le previsioni atmosferiche per il ritorno erano pessime. Pioggia, vento forte e nebbia fitta su Torino. Alle 16.45 il pilota Pierluigi Meroni contatta l’aeroporto: «Siamo sopra Savona, voliamo a 2 mila metri. Tra 20 minuti saremo a Torino». Da terra gli dicono che sarà indispensabile ricorrere al volo cieco. Di cui Meroni è istruttore e specialista. Tra tante ricostruzioni, la più probabile è che abbia cessato di funzionare qualche strumento di bordo, l’altimetro in particolare. L’aereo si schianta contro il retro della basilica di Superga, un simbolo della città così com’era un simbolo il Grande Torino non solo per Torino ma per un’Italia avviata a faticosa rinascita, tutti a rimboccarsi le maniche. Come faceva capitan Mazzola: era un incitamento ai suoi e un avvertimento agli avversari. Per loro sarebbe stato l’inferno.
L’inferno a bordo del G 212 si può solo immaginare. Corpi schiacciati, bruciati. La visibilità non superava i 40 metri. A riconoscerli viene chiamato l’ex ct Vittorio Pozzo, cuore da alpino, che affronta con coraggio, anche se straziato, la dura prova. Uno dei Ballarin, Castigliano e Loik hanno i lineamenti intatti, gli altri sono identificati in base a un documento, una catenina. La notizia abbruna tutta l’Italia. Da Roma, a rappresentare il governo ai funerali, parte un giovane Giulio Andreotti. Indro Montanelli scrive: «Gli eroi sono sempre immortali agli occhi di chi in essi crede. E così i ragazzi crederanno che il Torino non è morto: è soltanto in trasferta». Più di 500 mila persone lungo le strade cittadine seguono il 6 maggio i funerali delle 31 vittime in un silenzio totale, sotto un cielo di piombo. Oggi sarebbe tutto un crepitare di applausi, ma in quegli anni il dolore si esprimeva solo attraverso il silenzio. Un dolore generale, non solo degli appassionati di calcio, perché tra lavoratori e calciatori il solco non era profondissimo. Nei bar poteva capitare di vedere allo stesso tavolo di biliardo i calciatori (qualcuno andava all’allenamento in bicicletta) e gli operai della Fiat. Il calciatore era, ancora, un pezzo di popolo. C’è una bellissima poesia in dialetto di Giovanni Arpino (con discrezione tifoso juventino) che racconta il legame tra la squadra e quegli anni carichi di fatiche e di speranze. Era una disgrazia, ma anche un’amputazione. Era anche la prima sciagura aerea a coinvolgere una squadra di calcio. In memoria del Grande Torino la Fifa fissò il 4 maggio come giornata mondiale del calcio. Fu enorme l’eco in tutto il mondo. E anche il timore verso le trasferte in aereo, tant’è che al mondiale del 1950 in Brasile l’Italia ci andò in nave. Non un viaggio di 35 ore ma 15 giorni di navigazione e giocatori arrivati fuori forma perché nel corso del viaggio tutti i palloni erano finiti in mare.
La radiocronaca dei funerali fu affidata a Vittorio Veltroni, padre di Walter. Le bare erano sistemate due a due su autocarri, solo i giornalisti riuniti da tre bare: Renato Casalbore, Luigi Cavallero e Renato Tosatti, padre di Giorgio che a sua volte sarebbe diventato un grande giornalista. Sfilano dopo l’autocarro che trasporta i resti del pilota Meroni e del secondo pilota Bianciardi, poi i dirigenti, il dt Erbstein e l’allenatore Lievesley e i calciatori: Mazzola e Bacigalupo, i fratelli Aldo e Dino Ballarin, i “francesi” Bongiorni e Grava, Castigliano e Fadini, Ossola e Gabetto, Maroso e Martelli, Loik e Grezar, Rigamonti e Menti, Operto e Subert. Il più giovane, Fadini, aveva 21 anni. Il più anziano, Gabetto, 33.
Con quattro giornate d’anticipo il Torino viene proclamato campione d’Italia. Quinto scudetto consecutivo. Schiera la formazione giovanile, ragazzi sui 18/20 anni, e le avversarie fanno altrettanto. Il Torino vince tutte le partite e chiude con 5 punti sull’Inter. Il 26 maggio al Comunale amichevole di prestigio, incasso alle famiglie delle vittime. Dall’Argentina arriva il River Plate di Alfredo Di Stefano, mentre giocatori di altre squadre italiane indossano la maglia granata del Torino Simbolo. Sì, anche gli juventini come Hansen e Boniperti. E ancora Sentimenti IV, Manente, Nordahl, Nyers, Annovazzi, Lorenzi, Giovannini, Achilli, Furiassi. La partità finì 2-2. La leggenda del Torino non finirà mai.

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