Jim Thorpe

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L’amerindio di talento. Non era poi così lucente il sentiero

Jim Thorpe era un amerindio, un pellerossa se preferite. Nacque in una riserva indiana in Oklahoma, forse a Bellemont forse a Prague, il 28 maggio 1887, o forse 1888, Jakobus Franciscus Thorpe, riporta l’anagrafe, ma per la sua gente era Wa-Tho-Huk, Sentiero Lucente. Il nome lo scelse la madre, quando un raggio di luna illuminò la capanna in cui stava partorendo. I genitori erano nati da donne amerindie, il padre era figlio di un irlandese, la madre di un francese. Non ebbe vita facile, Jim: suo fratello morì di polmonite quando aveva otto anni, sua madre quando ne aveva dieci. Jim continuava a scappare di casa, suo padre a riportarcelo. All’età di 16 anni Jim perse anche il padre. A quei tempi vivevano a Carlisle, in Pennsylvania. Jim lavorava in una fattoria e nel 1907 scoprì di avere talento atletico: vinse una gara di salto in alto con 1.75. Ma gli piacevano di più il baseball e il football americano. Nel 1911, in una partita contro Harvard vinta 18-13, marcò tutti i punti.
Fu selezionato per le Olimpiadi del 1912, a Stoccolma, e iscritto in quattro specialità. Pentathlon, decathlon, salto in alto e salto in lungo. Nel pentathlon vinse 4 gare su 5 finendo terzo nel lancio del giavellotto: medaglia d’oro. Nello stesso giorno si qualificò per la finale dell’alto, dove si piazzò quarto, e settimo nel lungo. Il decathlon era per la prima volta nel cartellone olimpico e il favorito era uno svedese, Wieslander. Thorpe riuscì ad arrivare nei primi quattro in tutte e dieci le prove e superò Wieslander di oltre 700 punti. Altra medaglia d’oro, più due doni speciali da parte del re di Svezia Gustavo V e dallo zar di Russia Nicola II. Al ritorno in patria venne accolto come un eroe nazionale, in parata su un’auto scoperta per le vie di Brooklyn. Si stupì che quella folla scandisse il suo nome: «Non credevo che un solo uomo potesse avere tanti amici».
Non tanti, oppure sì, ma dipendeva dalle circostanze. Nel 1913 il Worcester Telegram pubblicò la notizia che Thorpe non era da considerarsi un dilettante, perché aveva disputato qualche partita nel North Carolina nel 1909 e 1910. Era vero, aveva intascato qualche dollaro da semiprofessionista del baseball. E questo bastò perché gli ritirassero le due medaglie d’oro e lo squalificassero. Pare che la federazione di atletica leggera fosse a conoscenza della cosa già prima di Stoccolma, ma abbia deciso di fare il pesce in barile. Ragionamento sottinteso: prima semmai si vincono le medaglie, poi a levargliele c’è sempre tempo. Fu un sequestro fatto contro il regolamento olimpico. Le contestazioni, anche le accuse di professionismo, potevano essere fatte nel mese successivo alla fine dei Giochi. Non sei mesi dopo, perché l’articolo del Worcester Telegram era di fine gennaio 1913.
Thorpe scrisse una lettera chiedendo clemenza, sostenendo di non aver imbrogliato nessuno, semplicemente non conosceva i regolamenti (cosa abbastanza credibile) ma non ci fu verso di cambiare verdetto. Scrisse: «Spero verrò scusato almeno in parte dal fatto che ero semplicemente uno studente indiano e non sapevo tutto quello che c’era da sapere. Davvero, non sapevo che stavo facendo una cosa sbagliata, perché sapevo che molti altri studenti avevano fatto la stessa cosa, solo che non avevano usato i loro veri nomi».
Da eroe nazionale a baro. Lo salvò lo sport. Come atleta era squalificato, come giocatore di baseball e football americano era arruolabile. E si arruolò da entrambe le parti, perché il diverso calendario lo consentiva. Nel 1915 indossò la maglia dei Canton Bulldogs, che lo pagavano 250 dollari a partita, una bella cifra. Vinse tre campionati, della squadra fu anche allenatore. A baseball ricominciò nel 1913 coi New York Giants, poi passò ai Boston Braves. Col football smise a 41 anni. Aveva già manifestato un debole per l’alcol, passò gli ultimi anni da alcolizzato, vivendo in una roulotte a Lomita, in California, con la terza moglie, Patricia. Le due precedenti, Iva e Freeda, gli avevano dato 4 figli a testa. Gli fu sempre più difficile mantenere una famiglia numerosa, specie dopo la Grande Crisi del ‘29. Lavorò da comparsa in molti film western, spesso nella parte di un capotribù indiano, fu muratore, buttafuori di un night, marinaio. Sempre più alcol e acciacchi, sempre meno dollari. Nel ‘50 riuscì a pagare le spese di un ricovero in ospedale (tumore alla bocca) solo grazie a una colletta. Nel 1951 uscì un film sulla sua vita, Pelle di rame, interpretato da Burt Lancaster e diretto da Michael Curtiz. Buon successo, ma Thorpe non ne ricavò nulla perché aveva già venduto i diritti alla Mgm nel ‘31(per 1.500 dollari). Morì d’infarto a 65 anni.
La famiglia, giustamente, chiedeva che Thorpe fosse seppellito in Oklahoma, dov’era nato, ma il governatore dell’Oklahoma negò il permesso. La vedova apprese che c’erano paesi o cittadine sconosciute ansiosi di ospitare morti illustri per attirare turisti. Scelse, in Pennsylvania, Mauch Chunk e East Mauch Chunk, che si fusero chiamandosi Jim Thorpe e per Thorpe inaugurarono una statua e aprirono un museo. Le sue spoglie furono trasferite lì. E intanto continuava la battaglia giuridico-sportiva per riottenere le due medaglie di Stoccolma. Che vennero riconsegnate in facsimile ai figli di Thorpe nel gennaio 1983, a 70 anni dalla squalifica. Non fu tolto l’oro ai secondi classificati di Stoccolma, Thorpe fu definito co-vincitore. Parte della famiglia, il figlio Jack in particolare, ha continuato a battersi per una sepoltura in Oklahoma: «Non ho niente contro la città che si chiama Jim Thorpe, ma certe cose non sono in vendita». Nel 2013 la corte della Pennsylvania ha stabilito che Jim Thrope debba restare a Jim Thorpe. E la Suprema corte degli Stati Uniti, cui era arrivata la pratica, ha deciso di non decidere e tutto sarà come prima. L’ultimo e inappellabile giudizio è del 4 ottobre 2015. Professionista involontario da vivo e involontario da morto: non era così lucente il sentiero.

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