La comunità è scuola. Il valore di classi aperte alle esperienze del territorio

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Spesso ci si riempie la bocca con proclami e paroloni come i famosi “patti di comunità” o altro, ma la scuola senza bisogno di protocolli, firme e timbri, deve vivere il rapporto con la città, con il territorio,
con il Paese. È impensabile una scuola che tenga porte e finestre chiuse

I bambini ricoverati in pediatria all’ospedale di Crema, a Natale hanno ricevuto gli auguri e un alberello in legno dagli alunni della mia scuola, grazie alla collaborazione dei clown in ospedale.
A Santa Lucia, insieme al parroco, abbiamo deciso di raccogliere giocattoli da donare alla Caritas per le famiglie più in difficoltà. A fine novembre suor Amelia, cremasca di nascita ma brasiliana d’adozione, ha fatto lezione al posto del maestro. Per conoscere gli strumenti musicali, non li abbiamo guardati sulla lavagna multimediale ma siamo andati a toccarli con mano alla sala prove del corpo bandistico San Lorenzo.
Non solo. Il primo viaggio d’istruzione dell’anno l’abbiamo fatto a Cremona, in treno, andando a conoscere la squadra della Cremonese e girando per la città con degli studenti delle superiori a farci da guida.
Ma non solo. Da settembre ogni mercoledì pomeriggio arriva in classe Piero, pensionato che dedica le sue ore a realizzare con noi aeroplani e treni di legno riciclando cassette del fruttivendolo.
Sono solo alcuni degli esempi di una scuola aperta al territorio. Spesso ci si riempie la bocca con proclami e paroloni come i famosi “patti di comunità” o altro ma la scuola senza bisogno di protocolli, firme e timbri, deve vivere il rapporto con la città, con il territorio, con il Paese. È impensabile una scuola che tenga le porte e le finestre chiuse. Le classi devono essere spalancate alle esperienze che l’intera comunità vive. La scuola non può essere avulsa dalla comunità ma ne è parte. L’idea di pensare di ufficializzare questo rapporto tra scuola e territorio è di per sé contradditoria perché dovrebbe essere la normalità, la quotidianità.
Qualsiasi territorio, qualsiasi comunità, ha un tessuto ricco di testimonianze ed esperienze che non possono e non devono essere ignorate. Qualche anno fa, visto che Crema ospita una sede dell’Università statale di Milano, portai una mia classe a conoscere da vicino l’ateneo così come andammo ad “occupare” l’ufficio e l’azienda di un imprenditore locale.
Ogni volta che insegno arte nei piccoli paesi chiedo ai ragazzi di portarmi a conoscere la bellezza presente nella loro realtà: dalla chiesa parrocchiale, al Comune, alle santelle che arricchiscono gli angoli delle cascine in campagna.
La classe non è del maestro, ma l’insegnante, che non può essere omnisciente, può dare la parola al medico, al farmacista, ad un collega esperto di musica, agli artisti locali, ad un’associazione che si occupa di verde, di decoro, di prestare cure in ospedale. Ciò che avviene attorno alla scuola deve diventare materiale per imparare.
Una delle lezioni più belle, nel mio percorso da maestro, è stata quella di partecipare con la mia classe ad un funerale. Mi trovavo in una realtà di 1.500 abitanti circa. Tutti si conoscevano. Una mattina entrando in classe mi ritrovo di fronte dei volti tristi, ammutoliti: persino Daniele, il più vivace della classe, aveva una lacrima agli occhi. Era morto un giovane ventenne del paese. Certo era più grande di loro ma era una figura amica. Ci pensai qualche ora prima di chiedere al preside di poter andare con i bambini alla cerimonia funebre di questo ragazzo. Mi fu concesso. Così ci trovammo tutti in chiesa, anche chi praticava un’altra religione. Anzi, il mio alunno indiano, sentendosi parte di quel rito fece pure la Comunione. Quel giorno abbiamo vissuto un patto con la popolazione, abbiamo vissuto la scuola declinando la preposizione semplice “con” nella vita.

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