La lotteria della cittadinanza per Dhurata, arrivata in Italia dal mare

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Mentre padre e madre si arrangiavano con lavori in nero e acciuffavano finalmente una sanatoria con la Bossi-Fini, Dhurata collezionava buone pagelle, arrivava al diploma (e al primo lavoro, in regola, come educatrice in un asilo nido) poi alla laurea in Scienze dell’educazione

In Italia è arrivata dal mare. Letteralmente: lanciata in acqua dagli scafisti che l’avevano trasportata dall’Albania, con la sua famiglia, in gommone. Era una notte d’inverno del 1998 e, al largo delle coste pugliesi, grandi fari perlustravano le onde in cerca di migranti, per rimandarli indietro.
Venticinque anni dopo, Dhurata Jinai racconta quella notte con vivacità. E arriva a dire che, alla partenza da Durazzo, la bambina di sette anni che lei era allora, stretta tra mamma e papà, con i suoi fratellini di 5 e 9 anni, in una folla di ragazzi e adulti, tutti maschi, pensò che quella corsa notturna su un mare ignoto fosse «divertente». Salvo poi ritrovarsi sotto la minaccia delle armi degli scafisti di fronte a un tremendo ricatto: «O vi buttate in acqua o vi ammazziamo».
In Italia, a Roma, Dhurata oggi ha casa e lavoro. È educatrice nelle strutture di accoglienza del Centro Astalli, il servizio dei gesuiti per i rifugiati. Quando va negli uffici pubblici, con i suoi lunghi capelli biondi e la carnagione chiara, tutti pensano che sia italiana. Ma per la burocrazia è ancora una straniera, sia pure con una carta di soggiorno di durata illimitata.
Per lei l’anno appena cominciato può segnare una svolta: il 24 maggio del 2019 ha presentato la documentazione per ottenere la cittadinanza italiana e nel 2023 scoccano i quattro anni che, secondo i decreti sicurezza, rappresentano il termine massimo per rispondere alla domanda.
Sul sito del ministero dell’Interno un messaggio assicura che “la procedura è conclusa”: ma non ne annuncia l’esito né indica una data. È la lotteria della cittadinanza, che il Parlamento tarda a riformare. Dice Dhurata: «Vivo in questo Paese da 25 anni. Lavoro. Pago le tasse. Pago l’affitto. Ma non posso votare, non posso partecipare a un concorso pubblico, non posso viaggiare liberamente. È una questione di diritti».
La sua vita italiana, l’ha costruita con coraggio e serietà, superando, con la sua famiglia, prove durissime. Fuggiti dal caos dell’Albania in piena crisi, sbarcati in Puglia, arrivati poi, con mezzi di fortuna, nella periferia romana, a Vitinia, e lì, per un anno, rifugiati in una «baracca con i polli», aiutati a sopravvivere «dalla parrocchia e dal buon cuore degli abitanti del quartiere, che ci dicevano dove andare: per esempio, per mangiare, alla mensa della Caritas». Iscritta a scuola subito, per volontà dei suoi genitori, quando ancora non parlava una parola d’italiano: «Cominciai dalla seconda elementare, la stessa classe che frequentavo in Albania. Ai miei compagni sembravo strana: non parlavo la lingua e vestivo spesso da maschio, con gli abiti che mia madre trovava alla Caritas». La sua prima scuola la stupì: «Aveva i vetri alle finestre e i termosifoni. A Scutari, niente di tutto questo». Mentre padre e madre si arrangiavano con lavori in nero e acciuffavano finalmente una sanatoria con la Bossi-Fini, Dhurata collezionava buone pagelle, arrivava al diploma (e al primo lavoro, in regola, come educatrice in un asilo nido), poi alla laurea in Scienze dell’educazione e alla specializzazione in coordinamento dei servizi socioeducativi.
Fino all’ultimo giro di boa: la domanda per avere la cittadinanza italiana. In bocca al lupo, Dhurata.

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