La memoria di Falcone e Borsellino Le scuole facciano la loro parte

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Sta a noi, a ciascun docente fare in modo che l’istruzione non sia ancorata alle pagine di un testo o al “programma”, ma sia la condivisione di esperienze, sia un essere nelle “vene della storia” per citare don Tonino Bello

«Che Guevara non sappiamo chi sia. Gandhi? Sì l’abbiamo studiato in storia». A rispondermi in questo modo, qualche mese fa, sono stati quattro 17enni e un 18enne che ho accompagnato a Palermo. Un viaggio che gli amici hanno donato al loro compagno per aver raggiunto il traguardo della maggiore età. Nel preparare per loro le tappe, avevo previsto due programmi: uno più impegnativo con visita a Casa memoria per ricordare Peppino Impastato e un altro più “leggero”. Hanno scelto il secondo ma arrivati all’aeroporto hanno voluto buttarsi in mare, così li ho portati alla spiaggetta Magaggiari a Cinisi.
Una volta giunti lì ho iniziato a parlare loro di Peppino. Hanno iniziato a farmi domande, tante. Poi li ho portati al casolare dove hanno ammazzato Impastato. Nei giorni successivi siamo stati in via D’Amelio, alla Kalsa dove sono nati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, a Capaci. Al termine del viaggio mi hanno detto: «Abbiamo imparato di più in questi due giorni con te che in quattro anni di scuola!». Questi ragazzi non conoscevano Peppino Impastato, non sanno nemmeno chi sia il simbolo della rivoluzione cubana. Non parliamo poi del generale Carlo Alberto dalla Chiesa o di Placido Rizzotto o ancora di Rosario Livatino o don Pino Puglisi. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono per loro più noti grazie alla famosa fotografia scattata da Tony Gentile; perché i media ne parlano ancora e soprattutto perché dopo il 23 maggio e il 19 luglio 1992 la sorella di Paolo, Rita e la sorella di Falcone, Maria, insieme a tanti altri hanno girato l’Italia per fare un’operazione di passaggio della memoria, che a distanza di tre decenni dà i suoi frutti. Anche la scuola, soprattutto al Sud, ha fatto la sua parte con tanti progetti d’educazione alla legalità.
Al Centro e al Nord, invece, date come il 21 marzo (Giornata della memoria e dell’impegno in memoria di tutte le vittime di mafia) o il 23 maggio (strage di Capaci) rischiano di passare inosservate in molti istituti.
Tuttavia se nel 2052, tra altri trent’anni, i nomi di Falcone e Borsellino non saranno solo una riga nel libro di storia, sarà solo perché le scuole (tutte, di ogni ordine e grado) avranno fatto la loro parte, insieme all’associazionismo e alle amministrazioni comunali.
Non possiamo assolutamente permetterci che la storia di quegli anni, che la memoria di questi due magistrati venga sepolta dal vizio italiano dell’oblio. La scuola ha il dovere di prendere in mano questa missione; fa parte delle sue corde. Quando insegno le regioni, ad esempio, non ho mai visto alcun libro che al capitolo che riguarda la Sicilia cita i due giudici e le stragi. Ma sta a noi, sta a ciascun docente fare in modo che l’istruzione non sia ancorata alle pagine di un testo o al “programma” (morto ormai ufficialmente da undici anni), ma sia la condivisione di esperienze, sia un essere nelle “vene della storia” per citare don Tonino Bello. Nelle scuole del Settentrione come del Meridione, il tema della lotta alla mafia non può essere lasciato nemmeno alla bontà di un docente, ma deve entrare a far parte della quotidianità. Fino a qualche anno fa girava l’agenda antimafia, che riportava ogni giorno i nomi e le storie di chi aveva perso la vita a causa della criminalità organizzata. Quando entravo in classe e uno dei miei alunni aveva il compito di leggere la pagina del giorno era un perenne passaggio di testimone, una sorta di “preghiera laica” per fare in modo che la dimenticanza non prendesse il sopravvento.

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