Le ali della libertà

Facebook
Twitter

La scuola e la cultura da sole non bastano a rendere le persone migliori ma possono diventare uno strumento di promozione sociale. Cosa accade se si riesce a garantire un percorso di studi e di conoscenze a persone che sono sempre rimaste escluse da ogni percorso educativo? In Brasile sono così convinti che la cultura possa rendere liberi che tolgono ai detenuti quattro giorni di carcere per ogni libro letto. Qui da noi la scuola in carcere dovrebbe essere un diritto garantito dalla Costituzione ma non sempre le cose vanno come dovrebbero, nonostante l’infaticabile lavoro di tanti docenti che ogni mattina entrano nelle carceri per insegnare. A leggere e scrivere. Ma soprattutto ad aiutare le persone a immaginarsi un futuro diverso

Chiariamo subito. La cultura e tantomeno la scuola, da sole, non rendono le persone migliori. Non basta certo un libro per renderti un cittadino rispettoso della legge né, tantomeno, un diploma per fare di te una brava persona. Di questo ce ne rendiamo conto tutti, anche i più idealisti tra noi. Però, pensate a cosa potrebbe succedere se a persone che non hanno mai potuto usufruire di un percorso di studi e di conoscenza, si riuscisse a garantire la possibilità di potervi accedere. Qualcosa potrebbe cambiare nella loro vita?
In Brasile ne sono così convinti che in alcuni istituti di pena avevano lanciato il cosiddetto Reembolso através da leitura, programma che prevedeva uno sconto di pena (quattro giorni, per un massimo di 48 all’anno ) per ogni libro letto. Come dire, la cultura rende davvero liberi. Basta volerlo. E crederci. E a crederci sono le migliaia di docenti che, ogni giorno, oltrepassano volontariamente porte blindate e grate per andare a insegnare dentro gli istituti di pena del nostro Paese.
Già, perché anche se non sono in molti a saperlo, negli istituti penitenziari sono presenti attività scolastiche curate direttamente dal Miur, il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca, che ha la competenza sia sull’attuazione dei corsi dentro le strutture carcerarie sia sull’assegnazione del personale docente. E la scuola in carcere piace: secondo il XV rapporto Un anno in carcere realizzato dalla Fondazione Antigone, nel 2018, nelle carceri italiane erano presenti 20.357 detenuti (di cui 10.256 stranieri) iscritti ai diversi corsi scolastici, con un incremento di oltre duemila unità rispetto all’anno precedente. La scuola in carcere fa riferimento ai Cpia (Centri provinciali per l’istruzione degli adulti) ed è divisa su tre livelli fondamentali: percorsi di alfabetizzazione e apprendimento della lingua italiana, percorsi di istruzione di primo livello (scuola media e obbligo scolastico) e percorsi di istruzione di secondo livello (diploma).


La bellezza di insegnare
«Insegnare a degli adulti o a dei giovani adulti ma anche a degli anziani in carcere è molto diverso che avere a che fare con degli adolescenti – esordisce Cinzia Chinaglia, docente da poco in pensione ma con 25 anni di insegnamento in carcere sulle spalle, prima a Monza e poi a San Vittore –. Il detenuto oggi è spesso immigrato, spesso tossicodipendente, spesso in stato di indigenza e ha sempre vissuto in condizioni di totale precarietà. Abbiamo a che fare con l’ala marginale della società, persone con fragilità economica, psichica e affettiva, con alle spalle, salvo rare eccezioni, percorsi scolastici molto frammentati se non inesistenti. Per questo accanto alle normali materie dentro San Vittore – che è un carcere circondariale dove i detenuti restano fino al giudizio definitivo per poi essere trasferiti altrove – abbiamo realizzato una serie di laboratori formativi: uno dedicato all’espressività, che coniuga produzione scritta e artistica, uno di motoria, uno di cittadinanza, in cui raccontiamo la Costituzione, l’origine delle feste civili e la storia delle istituzioni del nostro Paese, alcuni di lingua, uno di informatica ed anche un cineforum».
Qualcuno potrebbe obiettare che frequentare la scuola è sempre meglio che starsene chiuso in cella. «Ma certo. E anche se fosse? A parte il fatto che vedere una persona, spesso poco più che analfabeta, venire in classe e rimanere attenta e concentrata per 6 ore al giorno dal lunedì al venerdì, lo considero un successo, ma poi ricordo non solo che la nostra Costituzione stabilisce, nell’articolo 27, che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato ma anche che, come scritto nell’articolo 34, l’istruzione inferiore è obbligatoria e gratuita, guardando alla scuola non più come a un fatto coercitivo, ma come a un elemento di promozione sociale. Qui sta il senso di quello che, come docenti, facciamo dentro il carcere».
Solo il fatto di frequentare la scuola invece di starsene in cella diventa una scelta che può incidere in maniera importante sul futuro dei detenuti. «Quando in carcere entri in classe – continua Cinzia – sei in un luogo dove è importante che tu sappia parlare del tuo vissuto, della tua storia, tu conti in quanto portatore di esperienze di vita. Io dico sempre che i ventenni che ho conosciuto in carcere hanno un bagaglio di esperienze così drammatiche che, se fossero accadute a uno dei nostri figli, pochi di loro sarebbero sopravvissuti. E invece loro sono lì, davanti a noi, pronti a mettersi in gioco. Quello che noi cerchiamo di fare è creare un tempo sospeso, una sorta di bolla, in cui le persone possano riflettere sul proprio vissuto grazie a strumenti che fino a quel momento non avevano mai avuto a disposizione. L’autobiografia, ad esempio, è un percorso che aiuta a formare la consapevolezza e a recuperare l’autostima. Così si può iniziare a lavorare su un futuro alternativo a quello che molti di loro hanno avuto davanti fin dalla nascita e pensare davvero che si possa diventare qualcosa di diverso. In questo senso la cultura e la conoscenza liberano. Per davvero». Magari i risultati non si vedono subito. Ma non per questo significa che il sistema non funzioni.
«Prima della pandemia ci eravamo inventati insieme a colleghi, il concorso San Vittore legge: ogni anno sceglievamo un libro e lo facevamo leggere ai detenuti nei vari raggi, poi si sfidavano sulla conoscenza oggettiva del testo. Il raggio vincitore gareggiava poi contro una classe di una scuola esterna. A parte il fatto che la sfida era così sentita che a volte si è sfiorata la rissa, tantissime persone alla fine di ogni edizione ci ringraziavano perché quella era stata la prima volta che avevano letto un libro in vita loro».
E qui sta il senso della scuola in carcere. «Conoscere l’italiano e la matematica è importante, ma prendere coscienza di quello che sono le proprie reali capacità è fondamentale. Solo così si può essere consapevoli di quello che si è stati e di quello che si vuole essere in futuro. Mi mancherà la ricchezza di questo grande popolo racchiuso dentro San Vittore».

Leggi di più

Gli ultimi articoli

Gli argomenti più seguiti