L’Europa è divisa sull’accoglienza ai migranti. E non decide

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Le luci verdi alle finestre delle case dei contadini polacchi come segno di accoglienza ai rifugiati accampati sul confine polacco con la Bielorussia

All’alba o al tramonto, sulla linea dell’orizzonte appare, per un istante, una sottile striscia luminosa di colore verde. è un fenomeno ottico, ma nei racconti popolari scozzesi si narra che chi riesce a catturare con lo sguardo quella luce, acquisisce il potere di riconoscere con chiarezza i sentimenti propri e altrui.
In questi giorni, sulla frontiera con la Bielorussia, interdetta persino alle ong, i contadini polacchi, durante la notte, mettono alla finestra proprio una luce verde, per far sapere ai migranti, intrappolati dall’altra parte del confine, che otterranno da loro ospitalità.
In questa nerissima pagina della nostra storia contemporanea, quelle luci, proprio come il raggio verde della tradizione celtica, sono forse l’ultima possibilità offerta all’Europa di guardare dentro se stessa e capire se intende mantenere ancora il patto che fecero i padri fondatori e che oggi scricchiola sempre di più.
Davanti alle barriere di filo spinato stese dal governo di Varsavia lungo la frontiera orientale, proprio nei giorni in cui ricorre il trentaduesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino, dobbiamo riconoscere che è sempre più difficile credere nel sogno di riunificare gli europei sotto le bandiere della libertà, della democrazia e del diritto.
Mai come ora appare chiaro quanto la gestione dei migranti metta i membri della famiglia europea gli uni contro gli altri, indebolendoli e condannandoli all’impotenza.
I Paesi dell’Est che negli anni ’90 del secolo scorso festeggiarono l’abbattimento della cortina di ferro che li separava dall’Occidente, ora ne vorrebbero costruire un’altra per escludere altre persone da quel desiderio di benessere da loro stessi a lungo agognato.
Terrorizzati dall’abisso di povertà e violenza che scorgono dall’altra parte del Mediterraneo, Italia, Spagna e Grecia, non riescono a tenere fede alla loro secolare tradizione di accoglienza e tolleranza. I governi di Francia e Germania – che avendo le economie più floride reggono il peso maggiore dell’integrazione della popolazione straniera – temono di perdere la ricchezza raggiunta di fronte all’avanzata di nuovi pre­tendenti.
Dal canto loro, le istituzioni europee, Parlamento e Commissione, non riescono ad imporre una visione ed una linea comuni, anche per gli oggettivi limiti dei poteri di cui dispongono.
Così divisa, l’Europa non riesce a prendere una decisione. La riforma del trattato di Dublino, che scarica sui Paesi di primo approdo l’onere dell’accoglienza, è ferma al palo. I piani di ricollocazione dei migranti avvengono solo sporadicamente, su base volontaria e per numeri risibili di beneficiari. La sola intesa che si riesce a raggiungere è spostare il problema il più lontano possibile da sé. Tuttavia, la cosiddetta esternalizzazione delle frontiere, cioè l’idea illusoria che si possano tenere i migrati fuori dai confini affidandoli a Paesi terzi, espone l’Europa ai ricatti dei dittatori di turno: ieri era Gheddafi, oggi sono il presidente turco Erdogan e ultimamente il suo pari bielorusso Lukashenko, all’origine della crisi attuale.
In questo contesto, i contadini polacchi che osano sfidare il senso comune e le autorità, aprendo di nascosto le porte delle loro case, dimostrano disperatamente che la solidarietà è la sola strada possibile. Certo è un’opzione che ha un costo. Ma lo hanno anche le nostre paure. Che quei raggi verdi sul confine orientale ci aiutino a capirlo. Prima che cali la notte.

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