Lia Pipitone Nata, e morta, per la sua libertà

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Lia morì assassinata il 23 settembre 1983, mentre faceva spese in un negozio di prodotti sanitari. Il caso fu archiviato come l’esito di una rapina finita in tragedia. Vent’anni dopo alcuni pentiti di mafia rivelarono
che si era trattato di un’esecuzione: decisa da Cosa Nostra col consenso del padre

Aveva 25 anni e una gran voglia di vivere. A 18 era scappata da casa per seguire l’uomo che amava. Suo padre la giudicava il disonore della famiglia. La uccisero per questo. E organizzarono una messinscena per mascherare l’omicidio.
No, non è la storia di Saman, la giovane pakistana cresciuta in Italia e condannata a morte dalla sua famiglia perché voleva scegliere da sola come vivere, e con chi. È la storia di una ragazza siciliana, Lia Pipitone, figlia di un boss mafioso dell’Acquasanta, una borgata a mare di Palermo. Il suo assassinio, il 23 settembre 1983, mentre faceva spese in un negozio di prodotti sanitari, fu archiviato come l’esito di una rapina finita in tragedia. Vent’anni dopo alcuni pentiti di mafia rivelarono che non di rapina si era trattato, ma di un’esecuzione: decisa da Cosa Nostra col consenso del padre di Lia, Antonino Pipitone, che non riusciva a domare quella ragazza troppo indipendente. Ma ci sono voluti l’amore di un figlio, Alessio Cordaro, e la serietà di un giornalista, Salvo Palazzolo, perché i mandanti del delitto avessero un nome (il padre, più volte accusato, è stato sempre assolto, fino alla morte nel 2010).
Nel 2012, Cordaro e Palazzolo scrissero insieme un libro, Se muoio sopravvivimi, per raccontare la storia di Lia e di chi l’aveva uccisa. Ne scaturì un processo e la condanna dei mandanti, Vincenzo Galatolo e Antonino Madonia. Quest’anno il libro è stato ripubblicato, in una nuova edizione, con l’aggiunta di un capitolo che racconta la strana scelta del ministero dell’Interno di negare a Lia Pipitone “i requisiti soggettivi” per essere riconosciuta come vittima di mafia.
Nata nel 1958, orfana di madre fin da bambina, Lia aveva vissuto gli anni dell’adolescenza, da iscritta al liceo artistico, nella Palermo delle manifestazioni studentesche, condividendo con i suoi coetanei passioni, inquietudini e ideali. Amava i Pink Floyd, Che Guevara e Pasolini. La sua famiglia, dove perfino la scelta di indossare i jeans e non la gonna era considerata un’eresia, le stava stretta come una prigione. La sua fuga da casa, per amore, fu quasi inevitabile.
Tornò con un marito e un figlio e trovò col padre una fragile tregua. Non durò a lungo: pochi anni dopo il matrimonio, la ragazza confessò al padre che voleva separarsi e vivere per conto suo; lui le sputò in faccia. Lia cominciò a frequentare un cugino, Simone; le voci maligne del quartiere insinuarono che i due fossero amanti. Poco dopo Lia fu uccisa.
Ventiquattr’ore dopo Simone precipitò dal balcone di casa. Suicidio, si disse – forse, un’altra menzogna.
L’epitaffio migliore sulla morte di Lia Pipitone lo dettò un mafioso diventato collaboratore di giustizia, Francesco Di Carlo: «Era nata per la libertà. Ed è morta per la sua libertà».
Sono parole che si potrebbero ripetere per le donne iraniane che si tagliano i capelli e bruciano il velo in piazza, rischiando la vita per sfidare l’oppressione e la violenza del regime degli ayatollah.
Anche Lia Pipitone aveva voluto cambiare i suoi capelli: poco prima di morire, lei bionda, li aveva tinti di scuro. Un imperdonabile gesto di libertà.

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