Lilian Thuram

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E le battaglie contro tutte le forme di razzismo

Dice che di essere nero si è accorto a nove anni. Prima, nella Guadalupa dov’è nato, erano tutti neri, e uguali. Nella banlieue di Parigi no. «Allora c’era un cartone animato in tv, molto seguito. Protagoniste due mucche, Blanchette bianca e intelligente, Noiraude nera e stupida. I compagni di scuola mi chiamavano Noiraude. L’ho detto a mia madre e lei mi ha detto che il razzismo esiste dappertutto, che bisognava abituarsi e fare finta di niente». Ma Lilian Thuram non s’è abituato e non ha mai fatto finta di niente. Nel calcio è stato un campione: 5 anni al Monaco, 5 al Parma, 5 alla Juve, 2 al Barcellona. A 36 anni ha smesso per via di una malformazione cardiaca che gli era costata la vita a suo fratello Antoine, mentre giocava a basket. Trascuro di elencare scudetti e coppe vinti in Italia. Ricordo il titolo mondiale del ‘98 (3-0 finale al Brasile), quello europeo del 2000 (al golden-goal sull’Italia) e il secondo posto al mondiale del 2006 (vinse l’Italia ai calci di rigore).
È stato ed è un campione anche fuori dal campo di calcio, perché la sfida avviene su un campo molto più vasto: il mondo. Già membro della consulta francese contro il razzismo, già in prima fila quando c’era da replicare a Le Pen e a Sarkozy, Thuram ha creato una Fondazione, a suo nome, nel cui logo si legge: “Educazione contro il razzismo”. Ma anche contro il sessismo e l’omofobia, contro ogni atteggiamento discriminante. Alla Fondazione Lilian Thuram collaborano antropologi come Françoise Héritier, sociologi come Michel Wieviorka, filosofi come Tzvetan Todorov, storici come Pascal Blanchard, psicologi come Patrick Estrade.
Un’iniziativa intitolata L’invenzione del selvaggio ha avuto oltre 300 mila visitatori ed è stata votata nel 2012 come miglior mostra dell’anno. Nel 2006, in occasione di una partita Francia-Italia, Lilian ha comprato di tasca sua 80 biglietti e li ha distribuiti ai sans papiers. I clandestini destinati all’espulsione. Thuram è ambasciatore dell’Unicef, ha già scritto due libri: Le mie stelle nere e Per l’uguaglianza, entrambi tradotti in italiano. Crede molto in quello che fa ed è disponibile a recarsi nelle scuole, perché è lì, oltre che nell’ambiente familiare, che secondo lui nasce e cresce, oppure non nasce, il razzismo. «La cosa peggiore che si può fare è negare che il razzismo esista, in ogni società. Il problema esiste, è grave e va affrontato, non sminuito o negato. Vale per gli stadi e per le città, le nazioni. Perché allo stadio si fa il verso della scimmia ai giocatori neri? Non è razzismo, dicono molti commentatori e anche molti addetti ai lavori: è un modo per demoralizzare un avversario temuto. A sì? E allora perché questo verso non viene fatto a calciatori bianchi, a loro volta avversari temuti? E perché si fa il verso della scimmia e non del cane, del gatto o del maiale? Perché i neri nella versione degli ignoranti sono l’anello che collega le scimmie ai bianchi. Se un calciatore nero si sente ferito ed esce, non cambia nulla, lo sostituiscono. Ma è tutta la sua squadra, bianchi compresi, che dovrebbe uscire dal campo. Non farlo equivale a una omissione di soccorso. Fino a che il razzismo sarà visto come un problema dei neri o l’omofobia come un problema degli omosessuali non si faranno passi avanti».
Le sue stelle nere sono quelle che hanno contribuito a fare passi avanti. Marcus Garvey, il giamaicano che fondò la Black Star, una compagnia di navigazione che nell’ottocento trasportava i neri quando nell’arcipelago si praticava la segregazione. E naturalmente Rose Parks, Muhammad Alì, il poeta Aimé Cesaire, la cantante Billie Holiday, detta Lady Day, interprete della struggente Strange fruits, Nelson Mandela, Martin Luther King ma anche Esopo, il favolista che arrivò in Grecia come schiavo etiope, e Aleksander Puskin, uno dei maggiori poeti russi, che aveva sangue abissino e ne era fiero.
Nel 2005 a Thuram fu assegnato il premio Altropallone, che noi giurati chiamiamo confidenzialmente Pallone duro in opposizione al più famoso Pallone d’oro. In parole povere, è destinato a qualcuno che fa qualcosa di buono e utile anche per gli altri, quelli che stanno peggio. In genere la premiazione si svolge nel centro di Milano, nel palazzo della Provincia. Thuram ci chiese se fosse possibile spostarla in un scuola di periferia, e così andò: istituto Greppi di Quarto Oggiaro. Arrivò puntuale, raccontò le sue esperienze partendo da Blanchette e Noiraude, si rese disponibile a centinaia di fotografie e autografi. Solo dieci minuti prima che arrivasse i ragazzi si dicevano: figurati se un giocatore della Juve si fa vedere qui a Quarto Oggiaro. E invece si fa vedere. E parla di diritti, di uguaglianza, di storia e geografia, come oggi parlerebbe di Ius soli.
La cultura è un chiodo fisso di Thuram. Nelle scuole, specie le elementari, si siede alla scrivania e coi suoi occhialini sembra davvero un professore. Chiede: «Sapete chi è Cristoforo Colombo?». E i bambini in coro: «Sì, è l’uomo che ha scoperto L’America». E lui: «Se adesso una persona aprisse la porta potrebbe dire di avere scoperto quest’aula?». «No, c’era già l’aula, e noi dentro». «Appunto. Anche l’America c’era già, coi suoi abitanti dentro». E da lì può partire la discussione. Quando Jean Marie Le Pen, nel ‘98, disse che in Nazionale c’erano troppi neri per i suoi gusti, Thuram ribattè che erano tutti cittadini francesi e si battevano per la Francia. Era davvero una nazionale multietnica quella di Aimé Jacquet: Zadane di origini algerine, Thuram nato in Guadalupa, Viera in Senegal, Desailly in Ghana, Karembeu in Nuova Caledonia, Lizarau con radici basche, armene Djorkaeff e Boghossian. Nella semifinale con la Croazia, la gara più sofferta, Thuram segnò i due gol della vittoria, ma la vera vittoria fu alzare la Coppa del Mondo e insieme tappare la bocca a Le Pen.

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