L’incerto rimbalzare e una spiaggia da ritrovare

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Povertà in ampia diffusione nella Penisola. Gli effetti socio-economici della pandemia saranno più persistenti di quelli sanitari. Inevitabile reagire con strumenti emergenziali e assistenziali. Ma gradualmente occorre tornare ad altri modelli di azione sociale

La povertà assoluta torna a crescere (nel 2020 più di 1 milione di poveri aggiuntivi, rispetto ai 4,5 conteggiati l’anno prima) e tocca il valore più elevato dal 2005, sintetizza Istat. Oltre 450 mila “nuovi poveri” (ovvero soggetti mai incrociati prima) in fila ai centri d’ascolto dall’inizio della pandemia, fa eco Caritas Italiana. Comunque lo si misuri, con le anticipazioni della statistica ufficiale (la conferma delle quali è attesa per giugno), o con le richieste d’aiuto rivolte alla principale rete anti-indigenza della Penisola, il bilancio dell’impatto socio-economico di Covid-19 appare sconsolante, se non catastrofico.
Quasi un residente su dieci, in Italia, uscirà dal tempo pandemico certificato come “povero assoluto”: dato che converrà tenere bene a mente, addentrandosi nella stagione dei “rimbalzi” della produzione e dell’economia. Per quasi 6 milioni di individui, infatti, la risalita verso territori esistenziali più sereni, meno oppressi dall’ombra nera del default personale, sarà – si accettano scommesse – lenta, incerta, soggetta a ricadute.
La storia dei postumi delle Grandi Recessioni, d’altronde, è una storia di sedimentazione di effetti negativi nello spirito di singoli e comunità. Depressioni non solo materiali, ma anche emotive, psicologiche, di fiducia, protratte per anni, se non per decenni; batoste le cui conseguenze si saldano e si accumulano, e che le curve nuovamente al rialzo di borse e mercati non bastano a risollevare con prontezza.
Fuori dall’affondamento
Insomma, per semplificare, ci vogliono meno tempo e fatica a diventare poveri, di quanti ne occorrano a ritrovare il benessere. E basterebbe questa semplice considerazione a provare che siamo, e ancora a lungo saremo, ospiti-prigionieri di una fase di emergenza sociale destinata a sopravvivere all’emergenza sanitaria che l’ha innescata.
Torneremo sani ben prima di tornare solventi e benestanti. Nel frattempo, non possiamo che affidarci agli strumenti dell’emergenza (dal Reddito omonimo, aggiunto dal governo italiano al gemello “di cittadinanza”, ai mille rivoli d’aiuto scaturiti dal bacino del volontariato, dell’associazionismo e del terzo settore) per contenere e semmai restringere un’area di povertà estesasi all’inverosimile. E nessuno deve pensare che la cultura dell’emergenza eserciti un’impropria dittatura: semplicemente, era ed è il moto di reazione inevitabile, che istituzioni e comunità umane hanno prodotto e producono, al cospetto di una minaccia inattesa, e senza precedenti.
Non dobbiamo però assuefarci, a questa inevitabile navigazione emergenziale. Il ricorso a sussidi assistenziali, a schemi di accoglienza centrati sulla separazione fisica, a percorsi di cura rifluiti dal territorio all’istituzione “totale”, potrebbe costare caro, a chi ne beneficia e all’intera comunità, se non tornerà gradualmente a lasciare spazio a politiche e progetti sociali volti a generare equità, dignità, inclusione, partecipazione, sviluppo, autonomia.
Emergenza: etimologicamente, il “venire a galla, fuori dall’affondamento”. L’onda di piena, però, prima o poi si ritira. E la spiaggia della vita comunitaria deve ritrovare, se non i dettagli, almeno le conquiste più umanizzanti dell’ordine precedente.

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