Ma il “silenzio di Parigi” stona

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La grammatica del dolore e l’analisi logica del perdono

Possibile che, a decenni di distanza, a Parigi, tra i “rifugiati”, non sia possibile fare un’analisi logica del dolore delle vittime? Come non capire che alcuni morti, anche se sono morti, non trovano pace perché i loro familiari una pace non riescono a trovarla?

L’hanno chiamata operazione Ombre rosse, ma le ombre si allungano, si allungano sempre più, come al tramonto; e poco dopo, nel buio, sembrano fantasmi. Ma sono persone: sono reali. E ugualmente reali sono i familiari delle loro vittime, concreti gli articoli del codice che hanno violato, viventi e attivi i detective e i magistrati che intendono applicare la legge italiana.
Quella degli ex terroristi che hanno ammazzato e colpito in Italia, durante gli anni di piombo, ma che vivono a Parigi è una storia che periodicamente si ripropone. Ma senza grandi cambiamenti.
L’Italia non riesce a far trasferire dentro i nostri confini queste persone. Le abbiamo viste grazie alla tv francese. All’uscita dall’aula di giustizia a Parigi. Erano ragazzi armati circa mezzo secolo fa, adesso sono ultrasessantenni. Allora c’erano i generali in America Latina, i colonnelli in Grecia, il fascista Franco in Spagna. C’era il muro di Berlino, simbolo della divisione tra Nato e Patto di Varsavia, a trazione russa. Oggi ci sono la pandemia, la globalizzazione, un’immigrazione colossale, un mondo cambiato dopo gli attentati dei terroristi internazionali di matrice islamista e – ops – ancora tensione tra Nato e Russia. E – sovvertendo ogni analisi politica, ma non i racconti di non pochi scrittori e giornalisti – una guerra dentro l’Europa, con l’Ucraina aggredita dalla Russia, dopo anni e anni di tensioni che i media principali hanno ignorato.
Quei ragazzi credevano nella rivoluzione comunista, adesso hanno capelli grigi, passi a volte poco sicuri, malattie serie. Oggi, come allora, in un universo così profondamente cambiato, restano in silenzio. E questo silenzio è assordante.
Giuseppe Petronzi è un questore. Non è un filosofo o uno psichiatra. Ha letto il libro di Gemma Calabresi, moglie di Luigi, il commissario ucciso a Milano 50 anni fa. A Parigi c’è uno dei condannati per il suo assassinio, Giorgio Pietrostefani. «La signora Gemma – ha detto Petronzi in pubblico – ha perdonato i killer. Mi sono chiesto come sia stata capace. E ho capito che è riuscita a passare dalla grammatica del dolore all’analisi logica del perdono».
Questa frase fa riflettere. Rimanda al lungo percorso che una persona può fare per raggiungere la possibilità del perdono. Ma che il perdono ci sia o non ci sia, il percorso obbliga a sottolineare un tema che resta spesso sospeso a mezz’aria: perché tu, terrorista, hai ucciso mio fratello, mio marito, mio padre? Com’è andata? Tu c’eri quando è morto, che cosa puoi dirmi di lui? Ci sono domande legittime. E non hanno risposte. Non le hanno mai avute.
Gli ex terroristi dicono che «è tutto chiaro», che si conosce perfettamente la storia degli Anni di Piombo. A parte che questo assunto può lasciare alcuni di noi perplessi (io, se interessa, di sicuro), possibile che, a decenni di distanza, a Parigi, tra i “rifugiati”, non sia possibile fare un’analisi logica del dolore delle vittime? Un’analisi logica delle tante verità che mancano per “seppellire” davvero una vittima? Come non capire che alcuni morti, anche se sono morti, non trovano pace perché i loro familiari una pace non riescono a trovarla?
Non sta a noi inventare parole. Ognuno sente o non sente quello che può e vuole dire. Non sta a noi suggerire che lo sforzo di trovare qualche parola per tendersi una mano, tra persone, tra italiani, tra esseri umani che possono rimediare o non rimediare al male commesso, può aiutare sia chi parla sia chi ascolta.
Sta invece a noi dire che il “silenzio di Parigi” stona.
E stona ancor di più in chi credeva nella rivoluzione fatta in nome dell’equità e della giustizia sociale. Non sempre il silenzio è d’oro. In questo caso, è davvero un silenzio di piombo. Come una catena.

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