Marco Nozza pistard noir itinerante negli scantinati dell’umanità

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Sembra che parlino per noi, che non presidiamo abbastanza le conquiste sociali, i diritti, la libertà,
la dignità delle persone. Noi, arrendevoli o ciechi, spesso indifferenti, sovrastati da parole come business e crescita, paralizzati dai do ut des dell’economia e della finanza

Nel giornalismo intossicato dall’opinionismo si sarebbe chiamato fuori. Lui era un cronista gambe, cervello, cuore. E si chiamava Marco Nozza.
Senza vantarsi, un pistarolo. Perché andava sui fatti e cercava tutte le piste, poi si metteva su quella giusta, che non sempre era quella ufficiale.
Stava a Il Giorno, una nave corsara nel mare della stampa imbalsamata degli anni Sessanta, con Brera, Bocca, Clerici, Aspesi, Stajano: un covo di fuoriclasse.
Non era solo bravo, era credibile, e questo vale di più. Passava per un cronista d’assalto, gente un po’ matta che si diverte a fare le pulci ai mattinali di Questura, a mettere nei guai gli inquirenti incolpando i neri e chiudendo gli occhi sui rossi. Non era vero. Ma quando scoppiò la bomba di piazza Fontana, alla Banca Nazionale dell’Agricoltura, il 12 dicembre 1969, fu lui a guidare la controinformazione e a smontare con i suoi articoli la tesi del mostro Pietro Valpreda: semplicemente facendo il suo mestiere, andando sul posto a chiedere, chiedere, chiedere sempre, fino a quando non arrivava una risposta. Gliela diede la zia del ballerino anarchico la risposta, smentendo la tesi di chi affermava di aver visto Valpreda allontanarsi da piazza Fontana con un capotto grigio.
«Macché cappotto – gli disse Rachele Torri nel bugigattolo di casa – il mio Pietro non ha mai avuto un cappotto. Indossava sempre un giaccone militare con il cappuccio, glielo vado a prendere, eccolo…».
Nessuno ha mai risarcito Pietro Valpreda per la lapidazione subita in prima pagina, il processo e i mesi in carcere, ma a distanza di anni, ogni volta che si avvicina l’anniversario della strage che ha inaugurato la strategia della tensione, si dovrebbe ricordare anche il giornalismo onesto di Marco Nozza e dei pochi coraggiosi cronisti come lui, indagatori in una società dove nessuno sembrava voler davvero indagare. Contro i depistaggi, contro i terroristi di destra che lo volevano ammazzare, contro i terroristi di sinistra che pure lo volevano ammazzare, c’era Marco Nozza.
Ha scritto Gianantonio Stella, “contro l’asfissiante delusione per chi sbuffava annoiato davanti all’ennesimo sassolino di verità costato tanta fatica su questa o quella strage, contro l’angoscia di sapere quanto ogni suo passo potesse mettere in pericolo anche la sua famiglia, contro lo stesso direttore de Il Giorno, di cui era l’inviato principe, che lo voleva allontanare dalle inchieste per evitar guai…
Mentre raccoglievo le cronache di Scoop pensavo a lui per identificare il profilo del giornalista che non può essere sostituito da un algoritmo, un giornalista di cui ci sarà sempre più bisogno, perché capace di farci sapere quello che qualcuno (in alto) non vorrebbe farci sapere. In tempi difficili per i quotidiani di carta, rileggere certi articoli vuol dire riconoscere il valore civile della professione: dar voce a chi non ha voce. Mi piace pensare che oggi Marco Nozza sarebbe in nostra compagnia, pistard noir itinerante negli scantinati dell’umanità, dalla parte degli ultimi, di quelli che hanno smesso di vivere perché sottovivono. Se il giornalismo è anche battersi per cambiare in meglio le cose, coraggio, si può scendere in strada anche in scarp de’ tenis.

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