Mario Lodi Cambiare, insegnando la democrazia

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«Il nostro lavoro ha questa precisa funzione», diceva Mario Lodi. «Noi non siamo lì per migliorare la scuola, in modo che la società resti uguale, siamo lì per cambiarla»

«Certo la scuola è una sovrastruttura, sappiamo però che anche lì si può cominciare una resistenza ed una lotta aperta sul piano metodologico e sul piano politico. Il nostro lavoro ha questa precisa funzione, secondo me. Noi non siamo lì per migliorare la scuola, in modo che la società resti uguale, siamo lì per cambiarla. L’educatore deve quindi avere una duplice dimensione. Non può essere un educatore se si ferma a creare l’isola felice, come non può essere un educatore colui che limita il suo impegno soltanto sul piano politico con le dichiarazioni di principio e poi non lotta in qualsiasi posto si trova a vivere, compresa la scuola». A parlare di lotta, di resistenza e in altri momenti di rivoluzione è un uomo mite che tutti ricordiamo come il papà di Cipì: il maestro Mario Lodi. Prima che terminino le manifestazioni per il centenario della sua nascita, vogliamo anche noi fare memoria di quest’uomo che non può e non deve passare alla storia solo come l’autore di Cipì, quel meraviglioso testo collettivo tradotto in più di venti lingue.
Mario Lodi, nato a Piadena il 17 febbraio del 1922, era molto di più. Ho avuto modo di conoscerlo in occasione dell’uscita del mio libro Riprendiamoci la scuola. Andai nella sua casa a Drizzona, in quella cascina divenuta la casa delle arti e del gioco, un anno prima della sua morte avvenuta nel 2014. Lo intervistai seduto tra i disegni dei bambini. Alla mia domanda: «Mario, cosa fai quando entri in classe?», mi rimase impressa la risposta: «Tolgo il cappotto, il cappello, mi siedo in cerchio con i bambini e li ascolto. Ascolto quello che hanno da raccontarmi, ma non seduti uno dietro l’altro, perché i bambini devono potersi guardare negli occhi. È lì che nasce la democrazia».
Ecco la parola cardine della vita e del fare scuola del maestro Lodi: insegnare la democrazia, quella che lui aveva dovuto conquistare durante il periodo fascista.
Chi oggi riprende in mano i libri scritti dall’insegnante cremonese si renderà conto dell’attualità del suo messaggio. Qualche esempio. Il voto: mentre nelle nostre scuole siamo passati dai numeri a un modello nuovamente “giudicante” e ancor più complesso, Mario scriveva: «In questo tipo di comunità ovviamente non c’è il voto e quindi nessun timore. C’è invece la motivazione a tutto ciò che si fa. E tra i fini delle attività c’è quello della felicità».
Il tema: «Una delle tecniche della scuola autoritaria che da subito decidemmo di eliminare fu il tema. Nel momento stesso in cui insegnavamo al bambino a leggere e a scrivere, gli dicevamo che cosa doveva leggere (sul libro) e scrivere (col tema)».
Il preside: «In una situazione di educazione alla socialità, la presenza del direttore didattico o del preside con potere decisionale, diventa anacronistica. Dovrebbe essere eliminato per dare la possibilità agli insegnanti e ai genitori di riunirsi e discutere i problemi della scuola».
Ma nessuno pensi che Mario Lodi con queste idee abbia avuto vita facile. Anzi. È lui sempre a raccontarcelo: «Specialmente da parte di qualche collega c’è stata una specie di lapidazione, alla quale si sono uniti ovviamente coloro che osteggiano ogni cambiamento a ogni livello».
Negli ultimi anni, in pensione, aveva confidato all’amica maestra Luciana Bertinato che si sentiva un perdente. Lodi forse avrà perso la sua battaglia per cambiare la scuola ma ha cambiato la testa di tanti ragazzi e ragazze, oggi padri, madri e persino nonni che non hanno mai scordato i suoi insegnamenti.

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