Morire di carcere

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Settanta suicidi in carcere nei primi nove mesi del 2022. Impressiona il dato del mese di agosto: 14 persone si sono tolte la vita, una ogni due giorni. Gran parte delle vittime presentava situazioni di disagio o di emarginazione: stranieri, persone con problemi psichici, con dipendenze o talmente povere da non poter contare su un alloggio in cui beneficiare di misure alternative al carcere.
Tutto nella quasi totale indifferenza. Eppure basterebbe poco per migliorare le condizioni di chi si ritrova recluso prima ancora di essere condannato. La proposta di don David Maria Riboldi, cappellano di Busto Arsizio, è semplice: «Lasciamo la possibilità a chi è ristretto in carcere di sentire i propri cari quando ne ha davvero bisogno. Basterebbe lasciare un telefono a disposizione dei detenuti. Perché penalizzare chi ha già perso tutto?»

Nei primi nove mesi di quest’anno, 70 persone si sono tolte la vita in carcere. Un’enormità. Facendo le debite proporzioni è come se nei primi nove mesi dell’anno in Italia si fossero registrati oltre 75 mila suicidi. Numeri enormi che trasformerebbero il caso in una vera e propria emergenza sociale. La tragedia che si sta vivendo nelle nostre carceri, invece, si compie nell’indifferenza generale. Perché, diciamocelo, a chi sta fuori poco importa di quanto accade a chi sta dentro. Al punto che molte di queste morti non fanno notizia se non nelle fredde statistiche rilasciate ogni anno dall’amministrazione penitenziaria.
Tra di loro, alcuni ragazzi molto giovani ma anche due donne, casi molto particolari questi ultimi, visto che la popolazione femminile rappresenta solo il 4,2% dei detenuti (2.402 su 58.163).
Da sottolineare, poi, come molti casi di suicidio si registrino nelle case circondariali, tra detenuti ancora in attesa di giudizio e, quindi, ancora potenzialmente innocenti. Una situazione, quella dell’attesa di giudizio, che riguarda ​​8.355 delle oltre 54 mila persone detenute nelle carceri italiane al 31 maggio 2022 (circa il 15 per cento del totale).
Questo dovrebbe farci riflettere, tra i detenuti in attesa di giudizio molti restano in carcere solo perché non possono contare su altre soluzioni abitative dove poter attendere il processo: la loro colpa principale è quella di essere troppo poveri. Se a tutto questo aggiungiamo il fatto che negli istituti penitenziari italiani le guardie carcerarie, spesso senza preparazione specifica, devono seguire soggetti fragili affetti da tossicodipendenza o da problemi psichiatrici – uno dei due ragazzi che si sono tolti la vita nel carcere milanese di San Vittore era in lista di attesa per il trasferimento in una REMS, (struttura sanitaria per l’esecuzione delle misure di sicurezza dedicata alle persone affette da disturbi mentali) e aveva già tentano due volte il suicidio nelle settimane precedenti –, è facile intuire come la situazione sia velocemente peggiorata.
Intervenire in maniera efficace e con costi contenuti sarebbe tuttavia possibile. «Innanzitutto – spiega Ileana Montagnini, responsabile area carcere di Caritas Ambrosiana….

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