Nelle nostre vite siamo ricattabili

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Chi è che vive di ricatti? Il crimine, soprattutto. Soprattutto tra i criminali, quelli organizzati, come
cosa nostra e ’ndrangheta, vale il concetto che prima ti chiedo, poi ti obbligo a fare quello che m’interessa e, se dici no, si passa alla violenza

Quando i fotografi hanno ingrandito gli appunti di Silvio Berlusconi che riguardavano Giorgia Meloni, lei ha dichiarato: «Ha dimenticato una cosa, non sono ricattabile». E questa è una questione che va molto al di là della politica, dei partiti, delle lotte intestine per la leadership tra il fondatore della calante Forza Italia e la vincente uscita dalle urne, votata da un elettore su quattro.
C’è chi sostiene che, quando si arriva a un livello alto del potere, si è tutti in qualche modo ricattabili: cioè, si è tutti nello stesso canestro. Cane non mangia cane: e frasi del genere.
Eppure, chi conosce un po’ la storia del nostro Paese, può avere anche un’altra lettura. E cioè, a differenza di altri posti, il cosiddetto ascensore sociale – quello che permette a chi non è nato nella bambagia di ottenere buone posizioni, successo e denaro – in Italia è difficile da prendere. E lo si prende – quei pochi che ce la fanno – in due modi: o perché si è molto bravi, o perché si è molto agganciati. E se si è bravi e agganciati, o protetti, allora è meglio.
Nel 1992 in Italia c’è stata un’inchiesta chiamata Tangentopoli. è nata a Milano, si è propagata nel resto d’Italia (non dovunque, in alcune regioni i magistrati non si sono dati molto da fare) e ha messo in luce uno schema: io politico prendo i soldi da te imprenditore per farti lavorare; io imprenditore pago te politico per essere preferito al mio concorrente negli appalti. In questo modo sono stati tutti contenti, lassù nei cieli del potere. Mentre noi cittadini, ad esempio a Milano, abbiamo pagato la metropolitana a un prezzo che definire esagerato è poco.
Quando sono cominciati gli arresti, le retate, le confessioni, i processi che riguardavano la pubblica corruzione, è nata quella che venne definita la “società del ricatto”: io so, ma non parlo. Io so, vado in galera al tuo posto, ma non parlo. Io c’ero, ti ho visto, ma sto zitto. Un silenzio non gratuito.
è anche per tutto questo che una donna, che in quella stagione è stata adolescente, forse può dire quel “non sono ricattabile”: non sappiamo se sia vero, glielo auguriamo; comunque è una frase che segna un taglio netto. Perché, se siamo onesti con noi stessi, ne deriva una domanda: è meglio essere governati da un gruppo di persone ricattabili, che quindi prima o poi dovranno obbedire a qualcosa o qualcuno che noi cittadini non conosciamo; o è meglio avere nella sala dei bottoni persone non ricattabili che ragionano con la loro testa?
Certo, dipende dalla testa. Sulla testa magari parleremo un’altra volta, ma chi è che vive di ricatti? Il crimine, soprattutto. Soprattutto tra i criminali, quelli organizzati, come cosa nostra e ’ndrangheta, vale il concetto che prima ti chiedo, poi ti obbligo a fare quello che m’interessa e, se dici no, si passa alla violenza. Chi si ribella al ricatto della mafia in Italia, specie in passato, era chiamato eroe: ma da morto. Da vivo, un po’ meno: sono stati trattati da gran rompiscatole, anche dai loro colleghi, persino Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, morti con le loro scorte, sempre in quel 1992 nel quale l’Italia sembrava poter cambiare e non cambiò. Rimasero i ricatti, lo status quo e il tirare a campare, anzi a sopravvivere, dei partiti politici.
Ognuno può pensarla come vuole, destra, sinistra, centro, e ci mancherebbe. Ma resta un concetto molto importante: nelle nostre vite noi siamo ricattabili? Dovremmo qualche volta chiedercelo. E magari talvolta rispondere: ad alta voce.

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