E se ai fotografi e ai cronisti importa poco l’immortalità, ma solo esserci, o anche esserci stati, oggi dilagano i commentatori, i pittori, i chiosatori, gli improvvisati. E quando vogliamo una notizia che sia una notizia e non la troviamo, ci assale la nostalgia
M’è venuta una grande nostalgia. Cioè, la nostalgia è stata una reazione. Ho sfogliato molti giornali, volevo leggere qualcosa sulla Palestina e su Hamas, ma in poco tempo ho perso la speranza di trovare una sola notizia (ammesso che sia una notizia) che non avessi già sentito, visto, o intravisto.
Mi sono ricordato di un tempo passato, quando avevi una notizia, la verificavi e tornavi al giornale: «Hai portato il fotografo?». Scattava un’emergenza, bisognava correre sul posto, era un mestieraccio in cui s’imparava a scrivere correndo e viaggiando: se non ce la facevi, se avevi il panico da pagina bianca, beh, meglio cercare di passare al desk. Ma se eri operativo e pronto a correre, ti raggiungeva non la raccomandazione, ma l’ordine: «Portati il fotografo». E anche viceversa: «Sono arrivate queste foto, vedi di capire che cos’è successo».
E così m’è venuta la nostalgia per un mondo che sembra tramontato: quello di cronisti che andavano se non sempre, molto spesso, a “vedere”: e di fotografi che, da soli o in compagnia dei giornalisti, esploravano il mondo. E anche dei deskisti, quelli bravi, addirittura molto bravi, vere macchine in grado di macinare fatti senza mai perdere la forza e la fiducia, che facevano in modo di creare una rima tra le parole e le immagini, che curavano le pagine dai sommari alle didascalie.
Ci si conosceva, ci si salutava, ci si misurava e ci si giudicava. C’era chi aveva la notizia e chi no. Chi aveva la foto e chi no. Uomini, donne, giovani, anziani, freschi di nomina o vecchi di esperienza, giornalisti tutti uguali al nastro di partenza della notizia quotidiana. Un universo dove esisteva il merito e andava ben oltre le appartenenze. La sera, a cena, in città lontane, spesso tutti insieme. Il giorno dopo, ognuno (o quasi) per sé: anche perché non esisteva il perdono, non era possibile copiare quello che sulla carta aveva già la concorrenza. Bisognava rifarsi, rilanciare, sbattersi: o sei capace o non lo sei. Il resto? Chiacchiere.
Oggi, con i social e internet, è più facile fingere di non aver sbagliato le scelte e di aver bucato le notizie. Alla velocità della rete, e senza la protezione del copyright, tutti hanno tutto, nel senso che tutti (spesso) “rubano” tutto: non è più un Paese di cronisti gattopardi, ma di mass media sciacalli. Il principe straccione della cronaca non c’è quasi più, l’inviato di guerra che s’inoltra sino ai confini dell’impossibile – penso a Ettore Mo, del Corriere, morto da poco – deve stare nei recinti. E se ai fotografi e ai cronisti importa poco l’immortalità, ma solo esserci, o anche esserci stati, oggi dilagano i commentatori, i pittori, i chiosatori, gli improvvisati. E quando vogliamo una notizia che sia una notizia, quando vogliamo qualcosa da leggere, e non la troviamo, ci assale la nostalgia. Ma anche un po’ di pena: possibile che ci siamo ridotti così? Davvero non c’è un’alternativa?