Ottavio Missoni Omaggio alla libertà

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Giocare con i colori era una conseguenza, lo specchio di quell’anima vispa che emanava un suggerimento preziosissimo. Lo fa ancora adesso, senza dare peso, come allora, ai suoi gesti,
alle sue parole belle

Si chiamava Ottavio Missoni. Il nome è noto, dato il trionfo dei colori, maneggiati per rendere originali e poi ambiti in ogni dove capi di abbigliamento firmati. Da lui, viene da dire, anche se proprio lui, per primo, minimizzava, ironizzava, indicando sua moglie, Rosita, come artefice, fonte e stimolo prezioso. Lei, ecco, al lavoro sul serio. Lui, meno, mica tanto, perché, raccontava, il lavoro non lo interessava affatto, non lo aveva interessato mai. Cavaliere del lavoro? Ma dimmi tu che maschilismo. Lei piuttosto, Rosita, altro che storie.
Di Missoni racconto qui per rendere omaggio alla libertà. La sua, così illuminata e illuminante da resistere nella memoria al pari di un monito, di un invito permanente. Anche adesso che il Missoni non c’è più, volato via il 9 maggio 2013 in un dispiacere vastissimo, trattandosi di un pezzo unico. Di un tipo così leggero e poi acutissimo, ironico, scafato, da risultare indispensabile e dunque indimenticabile. Nato l’11 febbraio 1921 a Ragusa, cittadina che apparteneva allora al Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, cresciuto a Zara, atleta precoce e dotatissimo. Specialità: 400 ostacoli. Forte al punto da guadagnare la maglia azzurra per partecipare alle Olimpiadi di Londra, 1948, sesto in finale mentre cominciava a flirtare con la ragazza che sarebbe diventata fidanzata, moglie, compagna e complice per una vita.
Stava là, nella sua bella casa di Sumirago, vicino a Varese, con una vetrata che guardava al Monte Rosa. In giardino con in mano la sfera metallica per il lancio del peso. Ma Ottavio, perché? Perché voleva vincere i campionati Master. La specialità: variabile. «Sai cosa faccio: tengo d’occhio i necrologi. E poi scelgo la gara. Lancio del peso, per esempio. Quelli che hanno vinto in questi anni sono morti quasi tutti». Rideva di quel cinismo infantile, faceva sorridere la sua freschezza, quel viso da ragazzo che trova sempre un modo, uno stile per camminare nel mondo. Una questione di tocco, qualcosa che gli aveva dato molti amici affezionatissimi e una grande famiglia innamorata di lui. «Lavorare, se possibile no. Ero prigioniero degli inglesi, in Africa durante la guerra, giocavo a carte, chiacchieravo con i miei compagni, non proprio una vita d’inferno. Un giorno arrivano, dicono: è cambiato tutto, adesso siete nostri alleati. Rispondo: per noi cosa cambia? Beh, decidete se passare con noi, così smettete di essere prigionieri, lavorate. Impiegai un attimo: no, no, resto prigioniero». Citava spesso il pirata Misson, un antenato dato per certo, come ispiratore di una indipendenza di una libertà, appunto, dentro la quale tutto può accadere. Ispirazioni e aspirazioni in costante movimento, ciò che serve per immaginare e poi fare, per individuare un’idea, un percorso davvero anticonformista. Parlava, fumava anche se non avrebbe dovuto, ricordava gli allenamenti da ragazzo, la luce di Trieste, quella volta che gli proposero di emigrare in Australia. «Cosa c’è di più bello dei nostri posti, qui. Figuriamoci. A lavorare, per giunta, lontano, laggiù». Giocare con i colori era una conseguenza, lo specchio di quell’anima vispa che emanava un suggerimento preziosissimo. Lo fa ancora adesso, senza dare peso, come allora, ai suoi gesti, alle sue parole belle.

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