Quando non ero e non era il tempo; quando il caos dominava l’universo; quando il magma incandescente celava il mistero della mia formazione: da allora il mio tempo è rinchiuso in una crosta durissima
Si chiamava Pinuccio Sciola, figlio di contadini, figlio della Sardegna, la scultura più bella – diceva – del Mediterraneo.
Nato il 15 marzo 1942 a San Sperate, pochi chilometri da Cagliari, un paese che negli anni ha colorato, trasformato, creando opere d’arte, ospitando artisti capaci di cambiare volto alle strade grazie ai loro murales. L’asfalto dipinto di blu per dare agli uccelli un secondo cielo.
Uno scultore infaticabile, ispirato sempre. Formatosi a Firenze, a Salisburgo. I suoi maestri: Marcuse e Kokoschka, Minguzzi e Vedova, prima di trasferirsi in Messico per lavorare a fianco di David Alfano Siqueros. Le sue opere: esposte ovunque, alla Biennale di Venezia nel 1976, alla Rotonda della Besana di Milano nel 1984, a Roma, in Germania, in Belgio, Austria, Francia, Cuba, Cina. Potente e straniante per la sua vita intera, innamorato della pietra che cercava, incideva, tagliava per evocarne la voce. Suoni misteriosi e magici, emanati al tocco di una mano. Suoni liquidi dal calcare, acqua calcificata, fossilizzata; suoni cupi dal basalto, frutto del fuoco. Diceva: «Non credo di aver aperto nuove strade. Ho trovato il modo di dare a una materia apparentemente muta un suono. Il suo suono. Come l’ho scoperto? Non so. Ti ricordi quando hai conosciuto tua madre?». Diceva: «Ogni volta che accarezzo una pietra vedo la reazione della gente e so di avere una missione, ossia quella di ricreare un nuovo rapporto con la natura che sarà di più attenzione, di più amore, di più rispetto verso la madre terra».
Le sue mani, enormi e forti, somigliavano alla materia che lavorava nello studio spalancato, così come la sua casa. L’ha portato via un tumore il 13 maggio 2016 ma a San Sperate i suoi figli, Chiara, Tommaso e Maria hanno dato vita ad una fondazione che opera attorno ad uno straordinario Giardino Sonoro aperto ai visitatori. Un aranceto cosparso di opere così eleganti e musicali da trasportare ogni ospite in una dimensione magica, indimenticabile. Pietre sonore come quella donata alla Triennale di Milano o alla Città della Musica progettata a Roma da Renzo Piano. Non solo: semi della pace, come quelli sparsi sul sagrato della Basilica di San Francesco ad Assisi. Un consiglio: andate là, camminate tra gli strani menhir di Pinuccio per scoprire qualcosa che non fa parte della nostra esperienza quotidiana, eppure la riguarda, sfiora, accarezza e tocca qualche sonorità che sta nel profondo della nostra anima, così come risiede nell’anima delle pietre. L’invito è caloroso perché genera – ne sono certo – una corrispondenza, sposta l’attenzione verso ciò che appartiene ad un’intima natura, ad un’aspirazione inconscia spesso trascurata eppure vivida, rilevante al punto da apparire all’inizio, incomprensibile.
Non aveva dubbi Pinuccio, preso forsennatamente dal proprio compito. Perché io? Si domandava in continuazione. Il quesito riguarda ciascuno di noi e non comporta risposte certe. Solo ipotesi. Come questa, sua: «Quando non ero e non era il tempo; quando il caos dominava l’universo; quando il magma incandescente celava il mistero della mia formazione: da allora il mio tempo è rinchiuso in una crosta durissima. Ho vissuto ere geologiche interminabili; immani cataclismi hanno scosso la mia memoria litica. Porto con emozione i primi segni della civiltà dell’uomo. Il mio tempo non ha tempo». La suggestione è utile, può servire per metterci tra parentesi, per interrogarci sulle traiettorie impenetrabili dei nostri destini. Per ristabilire, infine, un ordine di rilevanza, tralasciando le irrilevanze che, inutilmente, ci perseguitano.