Prima la casa, conviene proprio a tutti

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L’housing first ha dimostrato di produrre buoni risultati con tanti homeless, perché offre alla persona in difficoltà un centro saldo (materiale e psicologico) attorno al quale ricostruire speranze, autostima, relazioni. In più, è anche una strategia che può contribuire a contenere i costi delle politiche di settore

Prima la casa. Sembra uno slogan in odore di demagogia. Invece è un’esigenza cruciale dei tempi che corrono. La pandemia ci ha insegnato che, senza la disponibilità di un alloggio stabile, sicuro, confortevole, e dunque se non è assicurato il diritto a un buon abitare, diventa impossibile fruire anche di altri diritti cruciali, a cominciare da quello alla salute. Ma non è solo questione di resistenza all’impeto del virus: housing first, prima la casa, è una prospettiva che acquista sempre maggior centralità, nei percorsi di lotta alla vulnerabilità e alla marginalità sociale, e dunque nei processi di inclusione.
Tale centralità viene sperimentata, ormai da anni, sul fronte che sta più a cuore ai promotori e ai lettori di Scarp de’ tenis. Ovvero la lotta all’homelessness. I cosiddetti approcci housing first, teorizzati negli Stati Uniti, disseminati in molti contesti internazionali, incorporati ormai stabilmente nelle direttive dell’Unione europea e più recentemente nei documenti del welfare italiano, prevedono che il tradizionale approccio a scalini (prima l’accoglienza di bassa soglia, poi luoghi e servizi di prima e seconda accoglienza, infine l’immissione in una dimora autonoma) venga sostituito dall’ingresso immediato in un alloggio, punto di partenza, e non di approdo, del faticoso percorso di risalita e ricostruzione dell’autonomia personale.
è un metodo che non va certamente assolutizzato. Non sempre, non ovunque e non per chiunque può sostituire gli strumenti classici (dormitori, comunità, lavanderie, mense…) del­l’accoglienza organizzata e collettiva. Ma ha dimostrato di produrre buoni risultati con tanti homeless, perché offre alla persona in difficoltà un centro saldo (materiale e psicologico) attorno al quale ricostruire speranze, autostima, relazioni. In più, è anche una strategia che può contribuire a contenere i costi delle politiche di settore.
Dunque giova all’individuo, e giova al sistema. Tanto da potersi proporre come ricetta valida anche in ambiti ulteriori. La ricerca Prigionieri di un tugurio, curata da Caritas Ambrosiana e dai partner di un progetto europeo sviluppato in cinque Paesi Ue, dimostra per esempio la centralità, nella questione Rom, della questione abitativa. Non si possono chiedere – è la tesi cardine dell’indagine, accreditata da autorevoli università – impegni convincenti di integrazione, a chi è costretto a sopravvivere in una baracca, in un ghetto etnico, senza forniture decenti di acqua ed energia, senza accesso al credito bancario per affittare o acquistare un appartamento, anche quando potrebbe permetterselo.
Disporre di una casa, base stabile di vita e di benessere, conferisce dignità e regala sicurezze. All’individuo e al suo nucleo famigliare. Su quella roccia, si può erigere l’edificio di un’esistenza legale e integrata. Aperta a regolari percorsi di istruzione, di lavoro, di tutela della salute. Le politiche pubbliche e gli sforzi del privato sociale devono badare al sodo: assicurare il diritto alla casa non equivale a far concessioni ai non meritevoli, ma serve a costruire e conservare le premesse della coesione e della pace sociale.
Un tetto per tutti. Conviene proprio a tutti.

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