Roberto Vecchioni e le luci, nelle ripartenze

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Sogno è una parola chiave per Vecchioni, e rimanda ai testi intrisi di vita e di rimandi epici e letterari,
al doppio dell’uomo che si porta dietro l’alba e il tramonto, la tristezza e la gioia, fino al fatalismo ripudiato di Samarcanda

C’è un prima e un dopo in ogni storia di successo che spinge a riletture profonde e a ricredersi sul senso da dare alla vita, anche con una canzone. Il prima di Roberto Vecchioni è una bohème vissuta e consumata tra il pensiero e l’emozione, un’ansia esistenziale che a 25 anni viaggia per Milano in Seicento e spegne le luci di San Siro con un addio. Il dopo sono cinquant’anni di palco, 320 canzoni, 33 album, 6 romanzi, due mogli, quattro figli, una vittoria al festival di Sanremo, la cattedra di greco e latino al liceo Beccaria, l’università dove insegnare forme di poesia per la musica e la fatica quasi disperata di trovare una coerenza artistica e umana.
Oggi la sua poesia in musica è esplorata, indagata, vivisezionata da Paolo Jachia e Massimo Germini in un saggio (Canzoni, Bompiani editore) che attraversa il tempo, la felicità e il dolore per diventare un immenso diario della condizione umana. Sul palco, con una chitarra e un microfono, come ha fatto al teatro Parenti, Vecchioni si trasforma nel lettore di se stesso alla ricerca di un’armonia tra amori e disamori, miti ed eroi, Dio e l’infinito. è questa per lui la forma canzone, dalla preistoria agli chansonnier, parole e musica che indicano una rotta, la capacità di non arrendersi al pensiero scontato, la voglia di scartare di lato per uscire dai percorsi battuti. Dietro il sogno sempre evocato c’è il viaggio, l’avventura, la scoperta del mondo: Chiudi gli occhi ragazzo/ credi solo a quello che vedi dentro/ perché non è vero/ che la ragione sta con il più forte.
Sogno è una parola chiave per Vecchioni, e rimanda ai testi intrisi di vita e di rimandi epici e letterari, al doppio dell’uomo che si porta dietro l’alba e il tramonto, la tristezza e la gioia, fino al fatalismo ripudiato di Samarcanda («Oggi non la scriverei più, il destino può essere avverso, ma noi possiamo cambiarlo») e all’identificazione nel bellissimo inno Ti insegnerò a volare che unisce due personaggi idealmente affini al cantautore: Alex Zanardi, con il suo coraggio, e Francesco Guccini, con la sua passione.
La vita che ci cambia invece è un invito a rileggere l’Infinito leopardiano come un patto sociale di solidarietà umana contro il dolore per amare la vita, anche la vita che non ti ama e non ti vuole (Forse l’infinito non è aldilà/ è al di qua della siepe). C’è la scoperta di Dio nell’ultimo Vecchioni, che si materializza in un dialogo sull’esistenza alla Stazione di Zima, canzone-metafora dell’impegno verso gli altri che precede quello per l’aldilà (Il problema non è che tu ci sia o non ci sia/ l’importante è la mia vita/ finchè sarà mia). Abbiamo tutti un’impresa da compiere nel nostro mondo imperfetto, tra storture, diseguaglianze, abissi di povertà e ignoranza. Basta poco: una restituzione, un po’ di tempo, una dedica, una parola amica. Non si è soli quando si è lasciati, è la sintesi di molte sue canzoni, ma quando qualcuno non è mai venuto.
Quanto ha contato la storia cantata cinquant’anni fa in Luci a San Siro, ho chiesto a Roberto. «è una canzone amata, più dal pubblico che dall’autore», ha risposto. «Era il ’68, facevo il servizio militare, le strofe e la musica sono nate in caserma. Ero stato lasciato dalla mia ragazza. Se lei fosse rimasta non l’avrei nemmeno scritta». Forse sarebbe cambiato tutto. Non ci sarebbe stato l’amore. E nemmeno lo strazio, la ferita di un addio. Si maschera da dolore a volte, la felicità. Perché le vere luci sono quelle delle ripartenze.

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