Samia Yusuf e Fatima Yawara

Facebook
Twitter

Quando i sogni finiscono sott’acqua per sempre

Come se il mare fosse un gentiluomo: prima le donne e i bambini. Anche donne giovani, atlete. Nel 2012 la somala Samia Yusuf Omar, nata nel 1991. Nel 2008 aveva gareggiato sui 200 metri a Pechino, arrivando ultima ma applauditissima da tutto lo stadio. Faceva simpatia quella ragazzina magra, forse pochi immaginavano quanto le costasse fare sport in Somalia, quanto mare di dolore avesse attraversato. Smette di studiare quando il padre è ucciso al mercato di Bakara, il più esteso di Mogadiscio, dove lavorava. Si occupa dei sei tra fratelli e sorelle e nei ritagli di tempo corre. Una donna che fa sport non è ben vista in Somalia né dai governativi né dai miliziani di al-Shabaab. Samia è più volte fermata ai posti di blocco, minacciata di morte se non smette di correre. Così decide di andarsene, di passare il mare, forse in Italia troverà un allenatore che la prepari per i Giochi di Londra. Non ci arriverà. Affonda nel mare di Lampedusa.
Poche settimane fa, il 28 ottobre, è annegata Fatima Jawara, nata in Gambia. Lei nel settembre 2012 era in Azerbaigian tra i pali della Nazionale di calcio Under 17, forse nemmeno aveva saputo di Samia, morta in aprile, certamente non ha letto il bel libro dedicato alla storia di Samia: Non dirmi che hai paura, scritto da Giuseppe Catozzella. Ma anche lei ha deciso che il suo futuro era in Europa. Ha potuto solo sognarla, l’Europa. Il gommone su cui si era imbarcata s’è capovolto al largo di Misurata: 97 tra morti e dispersi, ma sappiamo che dispersi è solo un modo per dire che il cadavere non è stato recuperato. La notizia è stata data dalla federcalcio del Gambia (Gff), avvertita dall’intermediario cui si era rivolta la ragazza, pagando il viaggio che attraverso il Sudan e il Sahara l’avrebbe condotta a Misurata. In Libia solita attesa, solita angoscia, solito sfruttamento. Niente pallone, bisognava solo obbedire ai mercanti di carne umana. Ma tutto sembrava accettabile, perché garantiva un altro futuro, un’altra vita.
Fatima, hanno sottolineato i commenti, non era una campionessa, e d’altra parte il calcio femminile in Gambia non è particolarmente sviluppato. In Azerbaigian la quindicenne Fatima aveva incassato 27 gol in tre partite. Nell’ordine, 0-11 dalla Corea del Nord, 0-6 dagli Usa, 2-10 dalla Francia. Tanti gol, anche se due su calcio di rigore e tre su autorete delle compagne. Molti altri ne aveva evitati. «Era una ragazza di talento», ha dichiarato il presidente federale Lamin Kaba Bajo. «Un anno fa aveva parato un rigore in un’amichevole contro una squadra scozzese». E Choro Mbenga, allenatrice dei Red Scorpions e selezionatrice delle Nazionali giovanili. «Giocatrice di qualità e ragazza coraggiosa». Non era una campionessa, ma che importanza ha? I sogni di chiunque, atleta o no, sono da rispettare, e da piangere quando finiscono sott’acqua per sempre, in quel mare che la follia e l’indifferenza degli uomini hanno trasformato in cimitero. Fatima è stata rispettata e forse pianta con un lutto al braccio dalle squadre femminili italiane di calcio e basket e da quelle maschili di calcio (serie C).

Leggi di più

Gli ultimi articoli

Gli argomenti più seguiti