Sara Simeoni

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L’atletica ha dimenticato una campionessa

Tanto per capirsi: in Brasile raccontano che se fai il nome di Pelè davanti a un vecchio, il vecchio si alza in piedi, ma se fai il nome di Garrincha il vecchio si mette a piangere. E oggi, aggiungo, se fai il nome di Neymar è probabile che il vecchio resti seduto mentre il giovane corre a farsi le mèches dal parrucchiere. Ma qui parliamo di Sara Simeoni e Federica Pellegrini, due regine dello sport italiano, in anni differenti e specialità differenti come possono esserlo il salto in alto e il nuoto. Quando Sara smise di gareggiare Federica non era ancora nata, quindi è abbastanza normale che, chiedendo quale sia stata la più grande atleta italiana di tutti i tempi i più giovani indichino Federica e i meno giovani Sara. Non è il caso di mettersi a pesare le medaglie, le vittorie, è tutto diverso, anche l’Italia che guarda e applaude. Ai tempi di Sara non esistevano i social network, i followers e la differenza tra sport maschile e femminile era più profonda di oggi. «Ci potevamo allenare solo quando avevano finito i ragazzi. Su materassi durissimi, e l’asticella non era di fibra rotonda ma di metallo triangolare. Tornavo a casa pena di lividi come se avessi giocato a rugby». La ragazzina troppo alta di statura per fare danza classica aveva trovato un’altra strada per volteggiare. Record italiano giovanile a 13 anni (1.35) quando ne ha 19 partecipa alla sua prima Olimpiade (Monaco 1972) e si piazza sesta con 1.85, ha guadagnato mezzo metro e ha deciso che la competizione le piace, fino a lì l’ha presa come un gioco, un modo di viaggiare. Adesso si sente pronta per fare sul serio, competere ad alto livello. A una condizione: che l’alleni Erminio Azzaro, pure lui saltatore in alto. «Altrimenti smetto». Si erano conosciuti a un raduno sul Mar Nero, nel ‘72 sono già coppia fissa. Lui ha dei dubbi: non sulle capacità di Sara, ma su se stesso. «Ero un atleta, non un allenatore. Non avevo mai allenato nessuno».
Si lascia convincere ed è così che per anni, estate e inverno, sul campo di Formia lavorano due coppie: Erminio e Sara da una parte, Pietro Mennea e il professor Vittori dall’altra. Due campionissimi con due grandi allenatori. Lui chiuso di carattere, lei timida. Di entrambi, di Mennea più ancora, l’atletica italiana non ritiene di aver bisogno, per coinvolgere i più giovani. Strano, o forse no. Sara non se la prende. Ha dalla sua una serenità innata. Insegna Scienze motorie all’università di Chieti, lavora a un progetto sul fairplay con il comitato regionale, base sul lago di Garda. «Può darsi che l’atletica mi abbia un po’ dimenticata, ma non me la prendo. Allo stato delle cose posso definirmi una donna, una moglie, una madre, un’ex atleta e un’insegnante felice».
Il ricordo più bello è l’oro di Mosca. «Dopo l’argento di Los Angeles ero la favorita, dovevo vincere, ma proprio quest’obbligo mi ha creato una specie di blocco, una crisi d’ansia mezz’ora prima della finale. Mi girava la testa, mi sentivo svenire, mi veniva da piangere. Poi è andato tutto a posto. A Mosca l’Italia faceva un mezzo boicottaggio, nel senso che gli atleti gareggiavano, ma senza il nome del nostro Paese, anche nella sfilata. Eravamo targati Coni. E non avevamo diritto all’inno, in caso di vittoria. Ma mi sembrava un’ingiustizia, così sul podio ho cantato Viva l’Italia di Francesco De Gregori. L’Italia che lavora e quella che resiste. Bella canzone, sempre attuale».
Molti pensano che aiutandosi un po’ sarebbe salita più in alto. «Non m’interessa, ho fatto le mie scelte. Certamente dopandomi avrei saltato di più, ma non ci ho mai pensato. Anche per l’educazione che ho ricevuto, ho sempre visto il doping come qualcosa di sporco, di disonesto. Ed è quello che cerco di far capire ai ragazzi, girando per le scuole».

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