Suor Carolina e le vite di tanti ragazzi strappate alla ‘ndrangheta

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A Bovalino, nel Bosco di Sant’Ippolito, con l’aiuto di due suore ha fondato un’associazione dedicata a don Puglisi. Un centro che, in vent’anni, ha visto passare almeno 500 ragazzi e ragazze

Nel suo ricordo, don Pino Puglisi, il parroco del quartiere palermitano Brancaccio ucciso dai sicari di cosa nostra nel settembre 1993, è “un uomo di Dio” che “infondeva pace, serenità”, un ottimista che coltivava “una fiducia illimitata nella Provvidenza” e che amava “vedere il futuro”, lavorando senza sosta per farlo accadere.
Al fianco di don Pino, beatificato dalla Chiesa come primo martire della mafia, suor Carolina Iavazzo ha lavorato a Brancaccio come responsabile del centro Padre Nostro, il cuore del tentativo di riscatto dei cittadini e, soprattutto, dei bambini e dei ragazzi. A quei bambini, al progetto di strapparli al reclutamento e alla servitù di cosa nostra, ha dedicato anche un libro, I figli del vento. Oggi, a 72 anni, suor Carolina continua a impegnarsi per dare a bambini e adolescenti una vita degna di essere vissuta. Lo fa a Bovalino, nella zona più difficile della Calabria, nella Locride dove la ’ndrangheta, organizzazione criminale ricca e potente, detta legge sulla vita e, spesso, sulle coscienze. «Qui – dice – non c’è la miseria di Brancaccio, ma una grande povertà educativa».
Nata ad Aversa, in una famiglia numerosa, padre panettiere, madre decisa a dare a tutti i suoi sei figli il modo di studiare, scoprì la vocazione a Roma, nel convento di suore dov’era andata per frequentare l’istituto magistrale. «Ero sempre stata inquieta; nel convento rimasi estasiata dal silenzio, dalla solitudine. Capii che consacrandomi a Dio avrei trovato pace». Laureata in Pedagogia, scelse di dedicarsi all’educazione dei giovani. Nel 1991 venne mandata a Palermo, per insegnare in una scuola media e dare una mano a don Puglisi, che stava creando il centro Padre Nostro. Due anni dopo, il 15 settembre 1993, si trovò davanti al cadavere di quel sacerdote coraggioso – e nel ripensarci – suor Carolina ancora oggi si commuove.
Dopo Palermo andò a Vittoria, nel sud est della Sicilia. Ma lì andava tutto “troppo bene”. Lei pensava a don Puglisi, alla sua fatica: «Mi mancava la strada». Chiese consiglio a monsignor Giancarlo Bregantini, allora amatissimo vescovo della diocesi di Locri; lui le consigliò di «soffrire e riflettere». Due anni dopo la chiamò nella Locride, a insegnare religione nelle scuole di San Luca. A Bovalino, nel Bosco di Sant’Ippolito, con l’aiuto di due suore – una delle quali, suor Francesca, è ancora con lei – suor Carolina ha fondato un’associazione dedicata a don Puglisi. Fidando nella Provvidenza, e venendone sempre ricompensata, ha costruito un centro che, in vent’anni, ha visto passare almeno 4/500 ragazzi e ragazze. È un centro che suor Carolina e suor Francesca hanno letteralmente visto nascere: per otto anni hanno abitato in un container collocato su un terreno incolto, davanti alla costruzione che man mano prendeva forma fino a diventare un bell’edificio con falegnameria, locali per il decoupage, i computer, giochi, tapis roulant, e un altro grande salone con le pareti decorate dalle nature morte che ragazzi e ragazze hanno dipinto, guidati da un artista, e dalle coppe vinte nelle competizioni sportive.
All’ingresso, una cappella con una reliquia di don Pino. E nel salone un grande pannello con la storia di don Puglisi e la sua massima: Se ognuno fa qualcosa, allora si può fare molto. Suor Carolina la mette in pratica ogni giorno.

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