Inflazione e alti tassi di interesse stanno facendo entrare una gran quantità di denaro nelle casse degli istituti di credito. Molta parte di questa mole gigantesca di capitali è poco o per nulla tassata. La nostra inchiesta sulla tassa extraprofitti
Alla fine la montagna non soltanto ha partorito un topolino. Ma quel topolino non ha neppure un bell’aspetto. Parliamo della tassa sugli extraprofitti delle banche, apparsa per la prima volta nel mese di agosto in un decreto legge governativo e immediatamente magnificata da alcuni esponenti dell’esecutivo guidato da Giorgia Meloni, a cominciare dal vicepresidente del Consiglio dei Ministri Matteo Salvini. Il governo aveva da un lato celebrato il proprio coraggio nel tassare gli istituti di credito, dall’altro di aver trovato in questo modo una soluzione per colmare il deficit di bilancio, evitando tagli alle spese o aumenti delle entrate fiscali (a carico di cittadini e imprese). Eppure, di questa tassa sin dall’inizio sono emersi numerosi punti deboli, criticità, perfino lati oscuri e dubbi sulla reale utilità in termini di entrate per lo Stato, ovvero di gettito fiscale.
Per cercare di comprendere cosa si nasconde dietro alla proclamata “tassa sulle banche” è bene partire dalle questioni tecniche. Dal giorno della sua presentazione sono state effettuate o ipotizzate innumerevoli modifiche. La prima versione indicava l’applicazione di un’aliquota unica, pari al 40%, prevista quando il margine di interesse (ossia la differenza tra interessi attivi e passivi) registrato nel 2022 eccede, per almeno il 3%, il valore dell’esercizio 2021 e per almeno il 6% nel 2023, rispetto al 2022. In termini più semplici, significa che a tutte le banche che hanno …