Tazenda «Resistenza è dare una smossa all’immobilità»

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Antìstasis è il nuovo disco della band sarda. «Occorre rimboccarsi le maniche e, come hanno fatto nel dopoguerra i nostri antenati, opporsi ad una fase di staticità che in natura rappresenta la morte»

Antìstasis (resistenza in greco) è il titolo dell’album dei Tazenda, uscito di recente: undici brani inediti cantati in sardo-logudorese e in italiano.
Il nuovo lavoro nasce dal compromesso tra le tendenze – differenti – dei tre componenti della band: Gino Marielli, Gigi Camedda e Nicola Nite. E allora ci si può imbattere in un’orchestra classica, come nelle ancestrali suggestioni delle launeddas della tradizione sarda. Ci sono gli ottoni e l’arpa, ma anche robuste chitarre elettriche e fiumi di tastiere di tutti i periodi del rock-pop.
Tutto è suonato e tutto è anche sintetico. Antìstasis è il suono del ballo di questo felice sposalizio. Le canzoni raccontano storie di persone comuni che svelano le loro pene o i loro amori, senza nascondere le debolezze, le paure ma conservando intatte le speranze nel futuro.


Ascoltando i vostri brani, viene il desiderio di vedervi dal vivo, di vivere la vostra musica. Cosa vi è mancato di più dei concerti?
Abbiamo ripreso i concerti, abbiamo già fatto delle esibizioni in giro per l’Italia e abbiamo capito cosa mancava alla gente, perché abbiamo visto le loro reazioni. Il loro modo di stare sotto al palco era diverso rispetto a quello di due anni fa: evidentemente abbiamo tutti realizzato l’importanza di suonare e cantare la musica e, per il pubblico, di uscire di casa e andare a un evento insieme ad altra gente per sentirsi di nuovo uniti e parte di una festa.


Tradizione, identità e classicità, ma anche il sintetico e il digitale. Perché scegliete di far convivere queste modalità tanto diverse?
Quando abbiamo iniziato a suonare da ragazzini la nostra direzione è sempre stata quella internazionale, piena di sintetizzatori ed elettronica. Poi, alla fine degli anni novanta, è arrivato il digitale e la nuova tecnologia si è sposata bene con il nostro modo di produrre musica. Contemporaneamente, sotto traccia, abbiamo subìto la tradizione della musica sarda. Circondati dai suoni delle launeddas, delle fisarmoniche, della lingua e dei balli sardi, abbiamo iniziato a mischiare i vari elementi ed è venuta fuori una formula magica che non abbiamo più abbandonato, anche se la parte folk delle nostre canzoni è sempre minore per il semplice motivo che non vogliamo sia innaturale o forzata. Speriamo che “cada” naturalmente dentro la nostra musica solo perché siamo sardi, non perché vogliamo fare i sardi.


Cosa è la sardità per voi?
È uno stato d’animo, anche se crediamo sia ciò che ognuno direbbe della propria terra. Il sardo sente la separazione e l’antichità della sua terra. La sente senza pensarci, ce l’ha nel profondo. Una specie di nostalgia orgogliosa.


Ammajos è una canzone delicata, ma potente al tempo stesso. È il vostro modo di rendere omaggio alla natura?
Ammajos significa, pressapoco, incantesimi. Un velo che nasconde la realtà, una danza di colori fantasmagorica che per noi rappresenta la vita. Ammajos parla di relazioni sentimentali e di stati d’animo. La natura è sempre presente nelle nostre canzoni perché, essendo sardi, poeticamente ci viene istintivo parlare di animali e piante, avendoli sempre intorno. Più andiamo avanti con la nostra vita e la nostra musica, più vediamo che la relazione con gli esseri umani non può essere divisa dalla natura e dall’interconnessione universale.


C’è in questo album, anche il senso della ricerca del tempo perduto. Gli avete dedicato una canzone.
La ricerca del tempo perduto è per noi musicisti un bellissimo titolo. Quando trovi un titolo così la canzone si scrive quasi da sola. Ci ha ispirato il libro di Proust, abbiamo cercato di interpretarlo nel nostro piccolo e di dare un senso a questa ricerca. Non è sicuramente una canzone che parla del passato con nostalgia, ma ha un senso più ampio. È un suggerimento a girare scene buone nella nostra vita in modo da vedere, alla fine di tutto, il film che ne è venuto fuori.


Si percepisce nel vostro nuovo lavoro un’anima rivoluzionaria, o almeno resistente. È da lì che nasce il titolo?
Essendo Tazenda e venendo da una cultura minoritaria, è quasi un obbligo essere partiti da ragazzini anche arrabbiati, rivoluzionari. Tutto questo si perde nel tempo, perché anche i più grandi artisti ribelli hanno dovuto cambiare il loro stile (come Bob Dylan che è passato dalla guerra e dalla religione per arrivare alla filosofia). La coerenza non è coerente: cosa si pensa a 20 anni non è la stessa cosa che si vive a 40, 50, 60. La nostra Antìstasis non è una resistenza a qualcosa, ma dare una smossa all’immobilità. Possiamo intravedere il senso anche in questi due anni che abbiamo passato. Pensare a rimboccarci le maniche e, come hanno fatto nel dopoguerra i nostri antenati, opporci ad una fase di staticità che in natura rappresenta la morte, a differenza della dinamicità che significa vita.


Chi è il vostro pubblico?
Noi abbiamo tre generazioni: il nonno che ha portato il figlio in braccio, che ora è padre e porta suo figlio. È una cosa che a noi capita spesso. Il nostro è un pubblico di famiglia.


Quali sono le speranze post Covid dei Tazenda per il mondo che verrà?
Ci sono stati meteoriti, terremoti, ere glaciali, dinosauri, olocausti e c’è sempre stato un “dopo” che in realtà era qualcosa che continuava. Sarà un mondo un po’ diverso, come lo è stato tantissime altre volte. Per i prossimi cento anni, che ci restano da vivere, le speranze dei Tazenda sono quelle di imparare a convivere sia con le cose che ci piacciono che con quelle che non ci piacciono.

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