Alda Merini Un ricordo che non muore

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«A far del male oggi non sono i matti, ma i sani di mente», ha dettato negli ultimi giorni di vita all’amico Maurizio Bonassina. Era il 2009. Alda Merini era ricoverata in ospedale. Sono passati 15 anni. Ma le sue parole restano attuali

È un ricordo che non muore, Alda Merini. Le sue poesie. Le ballate. Le note al pianoforte. I sogni regalati a piene mani. Le sigarette bruciate sul letto. Il bar Charlie al Ticinese. E i Navigli. I suoi Navigli, di nebbia e malinconia. Non basta il docufilm di Roberto Faenza. Ce ne vorrebbe un altro. Sui randagi della Milano sconosciuta. Sulle donne che sfidano i conformismi. Sulla povertà e la sofferenza. Sull’arte che medica ferite e paure. «Non sapevo che nascere folle, aprire le zolle, potesse scatenar tempesta…» ha scritto un giorno, come per essere cantata. E Milva lo ha fatto. Aveva il cuore esposto, un cuore generoso. E un’invincibile angoscia, quella di sentirsi sola, abbandonata, come i gatti spiazzati che non toccano terra. Andava allo sbaraglio, anche quando cercava una tabaccheria. Telefonava a tutti, di giorno e di notte. Per un conforto, per declamare versi in puro stile gramelot inventati all’istante. Nel suo disordine c’era una regola: nessuno doveva intervenire per cambiar posto alle cose. Della polvere di casa sua diceva: “è polvere di farfalle, come sono i pensieri”. Agli amici dettava a braccio questi pensieri: e diventavano meravigliose poesie. Lo faceva anche con noi del Corriere. Mandava ogni tanto i suoi versi con il fax.
Le prime volte molti non la capivano. Dicevano: «che cosa vuole quella lì»? Non c’era più Buzzati, non c’era Manganelli, non c’erano poeti in redazione. C’era il rude cinismo dei cronisti e dei neristi, che avevano altro a cui pensare che seguire le paturnie dell’Alda. Poi sono arrivati Tadini e Raboni. Intellettuali fuori ordinanza. E il talento della poetessa ha superato le vecchie barriere. Della Merini siamo diventati fan. Corrisposti, perché lei ci considerava come dev’essere considerato un giornale: utile. Anche solo per sapere se c’è un bar aperto a Ferragosto o una farmacia di turno in zona Ticinese. «Milanesi buoi, mi lasciano senza cappuccino», aveva bofonchiato al telefono nell’estate del 1999. Allora c’era ancora il coprifuoco a Milano, saracinesche abbassate, nessun turista, la città vuota di Azzurro: “Neanche un prete, per chiacchierar”. A Daniela Monti, la giovane cronista andata a intervistarla, aveva spiegato che senza un caffè non poteva cominciare la giornata. Naufraga, si sentiva una naufraga mentre affioravano le vecchie angosce, quel dolore che la fiction di Rai Uno ha messo in evidenza fin dal titolo Folle d’amore.
Era forte la Merini. Un vulcano. Un fiume in piena. Stimolava. Provocava. Regalava pensieri e parole. Si metteva al pianoforte suonando Chopin e ti confessava un sogno proibito: sedurre Adriano Celentano. Poi cambiava aria, ribaltava i pensieri e si indignava per l’egoismo di Milano e la violenza nelle strade. Scriveva senza calcoli e convenienze. Ma vinceva premi importanti, riconoscimenti nazionali e internazionali. Veniva chiamata a teatro, era oggetto di tesi di laurea. C’è stata anche una candidatura al Nobel, che avrebbe meritato. Felicità tardive, quasi una riparazione per le ingiustizie della vita, la malattia, il manicomio, i dodici anni di vita spezzata. «A far del male oggi non sono i matti, ma i sani di mente», ha dettato negli ultimi giorni di vita all’amico Maurizio Bonassina. Era il 2009. Alda Merini era ricoverata in ospedale. Sono passati 15 anni. Ma le sue parole restano attuali.

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