Elio «Canto Jannacci e la sua anima surreale e poetica»

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Ora è in tour con uno spettacolo dedicato al cantore degli ultimi. Ma con Elio, in questa intervista, parliamo di autismo, di teatro, di Gino Strada e anche dei talent show

Per tutta l’estate Stefano Belisari – in arte Elio – ha fatto il saltimbanco sul palcoscenico cantando e mimando la poesia e la follia di Enzo Jannacci. Il padre era stato a scuola con Jannacci, lo adorava e gli faceva ascoltare tutti i dischi fin da quando lui era un bambino. Così Elio, se lo è sempre portato dentro Enzo, come uno di casa. Ci vuole orecchio è lo spettacolo che il cantautore milanese gli ha dedicato. Le date continuano questo autunno, ma era difficile stabilirle con largo anticipo (sempre causa Covid). Mentre scriviamo sappiamo solo che lo spettacolo proseguirà nei prossimi mesi. Sul palco, Elio è insieme a cinque musicisti: Seby Burgio, Martino Malacrida, Pietro Martinelli, Sophia Tomelleri, Giulio Tullo. La regia è di Giorgio Gallione, gli arrangiamenti musicali di Paolo Silvestri.


Quale anima hai portato sul palco fra quelle di Jannacci?
Difficile dirlo. Certamente più vicina a me è quella surreale, ironica, folle. Anche se di lui ho sempre amato anche l’altra, l’anima più malinconica, poetica. L’ho sempre ammirato molto per la sua attenzione ai più infelici della società. Diceva di essere un saltimbanco e con Giorgio Gallione ci siamo trovati su questo aspetto. È uno spettacolo un po’ circo un po’ teatro, con l’orecchio a quello che diceva lui: chi non ride non è una persona seria.


Chi sono gli ultimi che oggi avrebbe amato il poeta?
Temo gli stessi – i barboni, le prostitute, i carcerati – perché sono cambiate tante cose dai tempi di Enzo Jannacci, ma quelle lì non cambiano purtroppo. Anzi, rispetto a quando ero piccolo oggi vedo molte più persone che dormono in strada, per esempio. Persone che non hanno una casa, costrette ad arrangiarsi. Nella mia Milano, ma anche a Roma dove spesso lavoro, e in tutte le città del mondo in realtà, la povertà è aumentata.


Questa estate siete stati in presenza, dopo un periodo nero. Come hanno risposto le persone?
Bene. C’è tantissima voglia di venire a teatro, e non solo. Ma temo che le misure per il Covid continueranno a penalizzare questo settore. Io sono certo che si continuerà a considerare l’arte e gli spettacoli come lo scorso anno, i primi a chiudere, gli ultimi ad aprire, con le stesse restrizioni. E non si capisce perché: oggi ero in treno, ed era pieno. Che differenza c’è fra un teatro e un treno? Perché quelli possono viaggiare pieni e i teatri hanno tante e tali limitazioni? Incomprensibile. Quindi è difficile dire se saremo qui o là. Come fai a programmare?


Recentemente hai detto in televisione, a Propaganda Live, che l’autismo non interessa a nessuno. Poco dopo, la Ministra per la disabilità Erika Stefani ti ha invitato. Sei andato?
No, non serve andare a parlare, noi famiglie che ci misuriamo ogni giorno con l’autismo abbiamo bisogno di cose concrete. Non sono in polemica con la Ministra, l’ho ringraziata. Ma occorrono azioni concrete. L’autismo, in particolare, è un problema su cui si può fare molto con le terapie, ma non viene fatto. Per questo, a un certo punto della mia vita ho deciso di espormi. Personalmente, il problema l’ho affrontato con i mezzi che avevo a disposizione e oggi va decisamente meglio di dieci anni fa con mio figlio. Ma ho imparato in questi anni che per uno che migliora, ce ne sono altri cento che stanno malissimo. E molte famiglie non hanno i mezzi per accedere alle terapie. Non è accettabile in un Paese come il nostro. Io, insieme ad altri genitori, stiamo tentando di far conoscere il problema, perché la visibilità è l’unica via per convincere lo Stato a cambiare le cose. Chi ha un tumore si può curare nelle strutture pubbliche. Ecco, la stessa cosa è per l’autismo, si deve arrivare a un protocollo di interventi pubblici, ma con le cure efficaci. E ci sono. Anche perché l’autismo è in crescita, in Italia sono 600 mila le persone con sindrome autistica. Oggi i dati ci dicono che insorge un caso di autismo ogni settanta nuovi nati. È tantissimo. E la tendenza, dicono gli scienziati, è in crescita. Occorre un cambio di direzione, a meno che non si pensi di rinchiuderli tutti, come facciamo oggi, con costi altissimi per tutta la società. Le persone autistiche hanno delle potenzialità enormi. E l’esperienza di PizzAut ce lo insegna.


Vuoi raccontare di PizzAut, a Cassina de’ Pecchi, in provincia di Milano?
È semplicemente l’idea di un padre, Nico Acampora; non è stato un Ministro o lo Stato. Un padre ha deciso di aprire una pizzeria e far lavorare i ragazzi autistici. Il suo è un laboratorio di autonomia. E funziona. Io ho fatto poco per loro, ma se posso li aiuto perché sono bravissimi. Lui ha dimostrato che si deve cambiare l’immaginario su questi ragazzi, possono essere autonomi. Non c’è bisogno di rinchiuderli.


Sei stato vicino a Gino e Teresa Strada. Come dare valore alla loro eredità?
Mi ha piacevolmente sorpreso la quantità di persone che sono rimaste colpite e sinceramente addolorate per la morte di Gino Strada. Secondo me ci lasciano come eredità il loro esempio. Loro due sono la prova che non è vero che non si può fare niente. L’atteggiamento di molti di noi di fronte alle ingiustizie è: “Poverini ma io cosa potrei fare?” E si continua quello che si stava facendo. Invece qualcosa si può fare. Certo non si pretende che tutti noi si faccia ciò che facevano loro. Ma già solo aderire ad Emergency o ad organizzazioni simili, e smetterla di criminalizzarle, già sarebbe molto secondo me.


Hai lavorato a X Factor, trasmissione forse un po’ costruita, ma che fa emergere i talenti. Oggi il talento basta?
Costruita però fino a un certo punto. Certo, c’è un canovaccio, ma capita che si vada fuori da quello e poi i cambiamenti restano. Il talento per avere successo non è mai stato sufficiente. Per esempio, la fortuna è un elemento indispensabile. Se parliamo di musica occorre innanzitutto un lavoro organizzato che oggi si fa poco. Il che spiega perché tanti talentuosi non emergono. Occorre programmare tutto: fare come la Rca negli anni Settanta, un esempio di come doveva essere una etichetta discografica. Era un laboratorio. Gente come Lucio Dalla, Claudio Baglioni, Antonello Venditti, hanno fatto quel percorso perché qualcuno ha visto il talento. Venivano seguiti costantemente da un team di esperti. Oggi al primo disco, o vendi, o sei fuori. Ed è un peccato mortale perché ci sarebbero talenti bellissimi. Ma se non vendi subito il sistema ti dimentica in un attimo.

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