Mamadou Coulibaly

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Vale più il calcio del curriculum

«Mi hanno detto barcone, forse per insultare, ma io non ho mai risposto» (Mamadou Coulibaly). C’è barcone e barcone. Quelli per i padri, quelli per i figli. Quelli relativamente tranquilli, quelli che vanno a fondo e sono costati centinaia e centinaia di morti. Il barcone su cui salì nel 1999 in signor Mjeshtri sulla costa albanese era relativamente tranquillo, a basso rischio, non come quelli che arrivano dal Nordafrica. Di comune c’è la speranza di un lavoro, di vivere una vita migliore. Il lavoro lo trovò a Genova, custode del prestigioso Tennis Club Genova 1893. Grazie a un po’ di risparmi accumulati lo raggiunsero la moglie e il figlio Elbi, che cresce in un mondo di racchette. A 3 anni palleggia contro il muro, a 5 comincia a giocare. A 16, il mese scorso, è stato convocato dal ct Fatos Nailani per la sfida in Coppa Davis con la Bulgaria.
Il barcone del figlio è più azzardato. Anche perché il figlio non scappa dalla miseria, dalla guerra. Thiès, città collocata una settantina di chilometri a est di Dakar, ha molte industrie ed è famosa per la bellezza dei suoi arazzi. Il padre di Mamadou insegna educazione fisica, è milanista ma di pallone non vuole sentir parlare, almeno finché il figlio non ha ultimato gli studi. «Poi sì, abbiamo dei parenti in Francia, molti senegalesi si trovano sui campi francesi». Mamadou non ha voglia di aspettare e nemmeno di studiare. In testa ha solo il pallone. E non la Francia. E così un giorno di due anni fa se ne va di casa, senza dire nulla a nessuno se non a un suo amico. Con regolare biglietto di pullman viaggia da Dakar al mare del Marocco. Dorme al porto in attesa di una buona occasione. Gli offrono un passaggio gratis per Marsiglia su una nave che trasporta derrate alimentari. Non è un barcone pericolante, però Mamadou non sa nuotare ed è tranquillo solo quando torna a sentire la terra sotto ai piedi. La prima tappa italiana è Livorno. è senza documenti e senza soldi. Ha un indirizzo di Roma. Gli dicono che a Pescara c’è una robusta presenza di senegalesi, meglio che vada là. Prende il treno ma per errore scende una fermata prima, a Roseto degli Abruzzi. Certi giorni mangia solo un panino. Dorme al campo sportivo. Dove lo pescano i Carabinieri, che lo portano prima in caserma poi a una casa-famiglia di Montepagano, dove una psicoterapeuta, Nadia Mazzocchitti, ha in affido altri sette giovani migranti. Altri volontari aiutano Mamadou nell’iter burocratico: documenti, richieste di provino a club calcistici. Per Roma, Cesena, Ascoli e Sassuolo il ragazzo non è pronto, mentre Oddo, allenatore del Pescara, lo aggrega alla prima squadra. Licenziato Oddo, è Zeman a lanciare Mamadou in serie A, proprio contro il Milan, ai primi d’aprile. Prova superata, senza emozioni particolari: finisce 1-1. Bene anche nel turno successivo, altro 1-1 a Empoli. Tifoso di Yaya Touré, Mamadou aveva chiesto la maglia numero 42, ma era già assegnata. La 33 è un ripiego. E che nella grande stampa (piccola di fantasia ma anche di buon senso) qualcuno lo abbia già paragonato a Paul Pogba è semplicemente assurdo.
Ma un’impresa eccezionale, forse unica (io credo unica, senza precedenti) Mamadou l’ha già firmata. Nessuno era mai arrivato a giocare in serie A senza essere stato tesserato. Ha saltato in pochi mesi un percorso che per quasi tutti dura anni. Tanto per dire, nel momento in cui scrivo, poco prima di Pasqua, Mamadou ha disputato solo quattro partite con un arbitro in campo: due nella Primavera del Pescara, due in prima squadra. A calcio aveva giocato solo nelle strade di Thiès. A 18 anni, compiuti in febbraio, ha già due agenti: Donato Di Campli e Marino Camaioni. Con il Pescara ha firmato in marzo un contratto triennale. Il futuro, non si sa dove, è suo. Thiès ha fornito alla nazionale senegalese Issa Ba, Mame N’Diaye, Dame N’Doye e Khouma el Boubacar. Combinazione, anche Boubacar, attualmente attaccante della Fiorentina, è passato per la casa-famiglia di Montepagano, che si chiama I Girasoli.
La fortuna bisogna meritarsela. E innegabilmente Mamadou ne ha avuta, ma ha avuto anche il coraggio di tenere vivo il suo sogno finché non l’ha visto diventare realtà. L’ha tenuto vivo a costo di fare cose che un bravo ragazzo non farebbe: tenere spento per mesi il suo cellulare, tant’è che la famiglia lo credeva morto. Adesso anche il padre si è arreso. «Mi ha chiesto scusa», ha dichiarato Mamadou. «Non capisco perché». Benedetto ragazzo, mai pensato neanche di sfuggita che fosse più giusto il contrario? Questa storia sembra dare ragione al ministro Poletti, noto gaffeur: «Vale più il calcetto del curriculum». Calcetto, calcio, siamo lì. La fortuna di Mamadou è di aver trovato persone di buona volontà che si sono prese cura di lui e l’hanno aiutato nella rincorsa. E spero ne abbia ancora, intorno, a spiegargli che non è il momento di montarsi la testa, che questo è solo l’inizio. Poi rimane un dubbio: avrebbe avuto gli stessi appoggi se avesse cercato un lavoro da muratore o da cameriere? Essendo un dubbio, non ho la risposta.

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