Messico ‘68

Facebook
Twitter

I guanti, il pugno, la coccarda. Così cambia la storia

La foto è famosissima: Olimpiade 1968, Città del Messico. Alla premiazione dei 200 metri sul gradino più alto c’è Tommie Smith, primo al mondo a scendere sotto i 20” con 19”83. Ha corso gli ultimi dieci metri a braccia alzate. Sul secondo gradino c’è un bianco poco noto, un australiano, Peter Norman. Ai 100 metri era in sesta posizione, ha rimontato John Carlos che ha finito in anticipo la benzina: 20”6 contro 20”10.
Il 1968 molti lo ricordano per il Maggio francese. Ma nel mondo sono successe tante cose. Il 16 marzo la strage di My Lai, il 4 aprile l’assassinio di Martin Luther King, il 5 giugno quello di Bob Kennedy. Aggiungiamoci il Biafra, i carri armati sovietici a stritolare la primavera di Praga, la strage di piazza delle Tre culture nella capitale messicana, poco prima dell’inizio dei Giochi (mai parola suonò tanto inadeguata). I due atleti neri studiano sociologia in California, a San Josè. Uno degli insegnanti si chiama Harry Edwards, ex atleta (disco). Nel ‘67 ha fondato l’Ophr (Olimpic program for human rights). Vorrebbe il boicottaggio olimpico da parte degli atleti neri (“perché dobbiamo correre in Messico quando dobbiamo strisciare a casa nostra?”) ma si rende conto che questa forma di protesta è molto difficile da attuare. Così agli atleti più politicizzati viene consegnata una coccarda, simbolo dell’Ophr, e ognuno è lasciato libero di manifestare la sua protesta come meglio crede. Smith e Carlos erano sicuri di salire sul podio. Ma non vogliono passare alla storia per questa vittoria, piuttosto per quello che verrà dopo: la premiazione. Si presentano senza scarpe (simbolo di povertà), Carlos ha al collo una collanina con tante pietruzze (una per ogni nero ucciso mentre difendeva i diritti civili). Hanno guanti neri: Norman li ha sentiti discutere nello spogliatoio. Denise, la moglie di Smith, ne aveva comprati quattro ma Carlos ha dimenticato i suoi al Villaggio. «Perché non li dividente, uno tu e uno tu?», suggerisce Norman. E così sarà: Smith alza il pugno destro, Carlos il sinistro. Chiusi e guantati di nero, la testa rivolta a terra mentre sventola sul pennone più alto la bandiera a stelle e strisce. Norman guarda fisso davanti a sé, anche lui ha al petto la coccarda dell’Ophr, per solidarietà e perché sa che, quanto al rispetto dei diritti umani, anche l’Australia ha le sue colpe (con gli aborigeni). «Sto con voi, perché si nasce tutti uguali e con gli stessi diritti», dice Norman.
«Se ne pentiranno tutta la vita», dice sotto il podio Payton Jordan, capodelegazione Usa. Tanto più che il presidente del Cio è Avery Brundage, che nel ‘36 da presidente del comitato Usa si era battuto contro il boicottaggio delle Olimpiadi di Hitler. Vedremo come la pagheranno, intanto guardiamoli sul podio i tre più veloci del mondo. Smith, 24 anni, è settimo di undici figli, suo padre raccoglie cotone. Carlos ha 23 anni, nato e cresciuto ad Harlem, figlio di un calzolaio. Norman è il più anziano, 26 anni, suo padre è macellaio, famiglia molto religiosa. La pagheranno salata per tutta la vita ma senza pentirsi. Smith e Carlos sono espulsi dal Villaggio olimpico, Smith per “indegnità” anche dall’esercito. Non correranno più, non rappresenteranno più gli Usa. Smith tira avanti lavando auto, poi giocherà in una squadra di football americano per tre stagioni. Carlos fa lo scaricatore al porto e il buttafuori in un night. A casa di Smith, che vive in Alabama, arrivano le minacce di morte del Ku Klux Klan e pacchi pieni di escrementi. A casa di Carlos minacce telefoniche a ogni ora del giorno e della notte. Sua moglie si uccide. Norman, il più grande sprinter della storia dell’atletica australiana, viene semplicemente cancellato. Non esiste più. Chi gliel’ha fatto fare di aderire a una protesta che riguardava solo gli americani neri? Continua a correre, supera 13 volte il tempo di qualificazione sui 200 e 5 quello sui 100 che lo porterebbero alle Olimpiadi di Monaco ‘72, ma la federazione australiana non lo iscrive e non gli dà nessuna spiegazione. Prova a giocare a football ma si rompe un tendine e rischia l’amputazione di una gamba. Insegna educazione fisica, arrotonda in una macelleria, lavora con il sindacato. Non è coinvolto nemmeno nell’organizzazione delle Olimpiadi in Australia (Sydney 2000). Ha tre bypass, soffre di cuore, muore il 3 ottobre 2006. Il 9, giorno del funerale, Smith e Carlos reggono la sua bara, sulle note di Chariots of fire. Dice Carlos alla famiglia di Norman: «Avete perso un grande soldato, per me era come un fratello». Dice Smith fuori dal camposanto: «Peter non ha girato gli occhi dall’altra parte, e un bianco poteva anche farlo». Da quel giorno del ‘68 in Messico a quel giorno del 2006 a Sydney si erano visti una volta sola: nel 2005, quando nel campus di San Josè venne inaugurata una scultura in fibra di vetro, opera del portoghese Rigo, che riproduce il podio messicano. Il secondo gradino del monumento è vuoto, non c’è Norman. Perché chiunque la pensi come Norman possa salirci. La federazione americana il 10 ottobre 2006 ha dichiarato giornata mondiale dell’atletica il 9 ottobre. Si chiama Peter Norman day. Il 12 ottobre 2012 il parlamento australiano si è scusato per il trattamento riservato in vita a Norman. Sul secondo gradino, in California, continuano in tanti a salire.

Leggi di più

Gli ultimi articoli

Gli argomenti più seguiti