Simone Manuel e Kolin Kaepernick

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Brevi storie di razzismo latente

Il San Josè Mercury News non fa parte delle mie abituali letture, quindi non posso giudicarne, in assoluto, la serietà. Non altissima, se stiamo a un episodio che ha suscitato molto clamore. I fatti: la nuotatrice Simone Manuel, 20 anni, texana di Houston, università a Stanford, vince a Rio i 100 metri stile libero ex aequo con la canadese Penny Oleksiak, 16 anni. Per entrambe è l’esordio olimpico. Il loro tempo (52”70) è il nuovo record olimpico. Simone tornerà dal Brasile con due medaglie d’oro e due d’argento. Dal 1984 un’atleta Usa non vinceva i 100 sl. In più, Simone è la prima afroamericana a vincere una medaglia d’oro nel nuoto. Ci sarebbero tutti gli estremi per un bel titolo personalizzato. Aggiungiamo, anche se non ha importanza (ma per molti giornalisti pare di sì) che Simone è anche una bella ragazza, dal sorriso contagioso. Questo il titolo del San Josè Mercury News: “Michael Phelps condivide una notte storica con un’afroamericana”. Fioccano le proteste. Tra le prime, quella di un redattore del giornale, Tim Kawakami, che twitta: «Questo titolo è orribile. È il mio giornale e potrei trovarmi nei guai per averlo detto, ma è davvero un titolo orribile». Sui social network gli aggettivi più usati sono disgustoso e vergognoso. Il giornale corre ai ripari scusandosi “per il titolo insensibile” e capovolgendolo: “Simone Manuel di Stanford condivide una notte storica con Michael Phelps”.
In Messico, nel ‘68, chiesero al grandissimo saltatore Bob Beamon: come mai i neri sono eccellenti in atletica leggera, basket, football, pugilato, e nessuno nel nuoto? E lui: «Rifatemi la domanda quando i neri avranno libero accesso alle piscine». Simone Manuel è la risposta. E ne è consapevole: «L’oro non è soltanto per me, è dedicato agli afroamericani venuti prima di me, a chi mi ha detto di insistere, a chi crede di non potercela fare, e invece non deve perdere la speranza». In Messico, nel ‘68, fecero cronaca e storia i pugni chiusi nei guanti neri. Smith, Carlos, la solidarietà del bianco Peter Norman. Una storia che ho raccontato su Scarp. Un’altra, forse meno nota, riguarda la ginnasta cecoslovacca Vera Caslavka, morta da poche settimane, e la racconterò un’altra volta in queste pagine. Ora preferisco rimanere nel contesto della discriminazione razziale, del razzismo più o meno latente negli Usa, anche se un afroamericano siede alla Casa Bianca. È un caso di cui si discute molto da una costa all’altra degli Usa, nasce dal mondo del football americano. È il caso Kaepernick.
Colin Kaepernick, 29 anni, è quarterback dei San Francisco ‘49ers. Come saprete, prima di ogni evento sportivo negli Usa viene eseguito l’inno nazionale, The star spangled banners e tutti (atleti, spettatori) si alzano in piedi, molti appoggiando la mano sul cuore. Prima del match amichevole con la squadra di Green Bay, Kaepernick è rimasto seduto. Non se ne sono accorti in tanti, finché uno spettatore non ha diffuso l’immagine di Kaepernick seduto. Spiegazione: «Mi rifiuto di alzarmi e mostrare orgoglio per un Paese che opprime la gente di colore e le minoranze. Questa presa di posizione per me è più importante dello sport che pratico. Se mi girassi dall’altra parte sarei un egoista. Ho visto corpi per le strade, a terra, e i responsabili di quegli omicidi andare in ferie pagate, senza pagare le conseguenze per avere assassinato uomini disarmati». Kaepernick si riferisce all’ondata di vittime afroamericane per eccessivo zelo della polizia. Da qui il movimento Black Lives Matter, cui hanno dato appoggio cestisti famosi come LeBron James e Carmelo Anthony.
Pochi giorni dopo, a San Diego, altra amichevole di preparazione al campionato Fnl. Durante l’inno Kaepernick è inginocchiato. Il suo gesto è stato imitato a Oakland da Jeremy Lane, cornerback dei Seattle Seahawks. Sul web si vedono tifosi dei ‘49ers dare fuoco alla maglia rossa numero 7, quella di Kaepernick, sulle note dell’inno nazionale. Donald Trump lo ha invitato ad andarsene altrove: «Se questo Paese non gli piace, se ne cerchi un altro». Pronta replica di Kaepernick: «Non sono antiamericano. Questo è il mio Paese, amo l’America e la sua gente. Ecco cosa mi muove, la voglia di un Paese migliore». Tra gli insulti più frequenti, “traditore”. Altri lo accusano di protagonismo: come può lui, con un conto in banca di milioni di dollari, parlare di discriminazione razziale? Facile la risposta: «Parlo anche per quelli che non hanno voce». Curiosamente, Kaepernick subisce attacchi da afroamericani “perché è poco nero”. Sentite Rodney Harrison, già giocatore di football, oggi commentatore televisivo: «Io sono nero, Kaepernick no. Non ha vissuto quel che ho vissuto io sulla mia pelle».
In effetti, Kaepernick è poco nero. Nero era il padre biologico, di cui nulla si sa, era già fuori casa prima che Colin nascesse. Bianca la madre biologica, Heidi Russo, siciliana d’origine. Ebbe Colin a 19 anni, non aveva i mezzi per mantenerlo. All’età di sei settimane Kaepernick fu adottato da una coppia di bianchi, spesso presente alle sue partite. Heidi, sua madre, vive a Denver e lavora come infermiera. Non si sono più visti. Scritti, sì. Nel dibattito è entrato anche Obama: «A volte le proteste sono confuse e fanno arrabbiare la gente, ma continuo a preferire i giovani impegnati, non gli indifferenti che si tirano da una parte. Credo all’onestà di Kaepernick e penso che il suo atteggiamento porti a discutere di un problema molto serio».
Eroe o traditore, Colin Kaepernick ha già fatto sapere che la sua protesta continuerà nella gare di campionato. Sempre che i ‘49ers non rescindano il contratto.

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