Walter Major Taylor

Facebook
Twitter

Il nero volante che batteva i bianchi sulla bici

Da molti anni gli atleti di pelle nera gareggiano e spesso dominano, in quasi tutti gli sport, esclusi quelli della neve. Ma non è sempre stato così, per motivi economici e di discriminazione razziale. Il primo afroamericano a vincere un campionato del mondo fu il boxeur George Dixon, canadese, nel 1890. E fu, a detta di Nat Fleischer, storico del pugilato, il più grande peso piuma della storia. Il secondo fu Marshall Walter Taylor, più noto come Major Taylor perché agli inizi della sua carriera si esibiva indossando una divisa dell’esercito nordista. Major era un ciclista, e qui sta la singolarità della sua storia. Un ciclista velocissimo sulle piste di tutto il mondo, dunque un pistard. Lo chiamavano il Nero volante. Il presidente Roosevelt era suo tifoso. Il padre di Major, Gilbert Taylor, era un veterano della guerra civile. Aveva sposato una ragazza di Louisville, Saphronia. Dal matrimonio erano nati otto figli, cinque femmine e tre maschi. Gilbert era fattore in una tenuta vicino a Indianapolis, proprietaria una famiglia di bianchi, i Southards, di vedute molto aperte in rapporto all’epoca. Major giocava con i loro figli e all’età di 10 anni riceve in regalo una bicicletta e questo regalo segnerà la sua vita.
Major già a 18 anni, nel 1896, conquista sulla pista di Indianapolis due record mondiali sul miglio, ma la prestazione non è omologata: ferito l’orgoglio dei rivali bianchi (farsi battere dall’unico nero in bicicletta, suvvia). Si rifarà con gli interessi nel 1899 con 7 record mondiali battuti in 6 mesi. Per chi è poco pratico di ciclismo, va ricordato che le grandi corse su strada (Giro, Tour) sarebbero nate nel primo decennio del Novecento. E che la pista è considerata l’aristocrazia del ciclismo. E di questa aristocrazia entra a far parte. Negli Usa (ma non negli Stati del Sud), in Europa, in Oceania. Mentre gareggia a Sydney accompagnato dalla moglie Daisy (sposata ne 1902 ad Ansonia, Connecticut) nasce la figlia, chiamata col nome della città.
L’Europa ha fame di leggende e di esotismo. È in questo periodo che William Cody, alias Buffalo Bill, gira col suo circo e sfida a cavallo i velocisti sul cavallo d’acciaio, ossia la bicicletta. Al Velodromo Sempione di Milano batte Romolo Bruni, ma utilizzando due cavalli. Certamente nella sua tournée europea di tre mesi Major riempie il Motovelodromo di Torino e batte seccamente Federico Momo, l’idolo di casa. Lì lo vide un giovanissimo Vittorio Varale che così lo descrisse: «Aveva al proprio arco una freccia sola, ma sapeva adoperarla come Paganini la quarta corda del violino prodigioso, ed era la punta finale, quell’estrema espressione dello sforzo nelle vorticose ultime pedalate, che dai giornali avevamo imparato a chiamare démarrage. La sua forza non si rivela con muscoli appariscenti e vistosi; il suo corpo era perfetto in un’armonica fusione di linee e di volumi, lo chiamavano l’Apollo d’ebano, sotto le cui sembianze, celata, vibrava una potenza che, una volta messa in azione, restava invisibile». Vale a dire che gli alti picchi di velocità Major li toccava senza sforzo apparente mentre in altri pistard lo sforzo si vedeva, eccome.
Da metà maggio a fine luglio durava la tournée europea di Major. Gli sprinter più forti e famosi erano europei: Rutt, Friol, Jacquelin, Ellegaard, Poulain, Grogna. Jacquelin era il prediletto dai francesi, un po’ per il valore un po’ per la messinscena (arrivava al velodromo in carrozza, un tiro a quattro). Major lo batté, ne sconfisse tanti. A patto che non si corresse di domenica, era molto religioso e pur di non gareggiare nel giorno di festa rinunciò ad altre vittorie.
Non fu rose e fiori, la sua carriera. Prima l’ostracismo da alcuni velodromi, poi le combines tra gli avversari per farlo perdere. Gli avversari, va sottolineato, erano tutti bianchi. Una volta fu sbattuto contro la balaustra e perse conoscenza: la scorrettezza dell’avversario, che aveva cambiato apposta direzione, fu punita con soli 50 dollari d’ammenda. Aggiungiamoci le minacce del Ku Klux Klan. Non enfatizzò la persecuzione razzista: «La vita è troppo breve per coltivare odio nel cuore», diceva. E anche: «Se gli danno pari opportunità, non esistono motivi fisici o psicologici per cui un nero non possa primeggiare nello sport».
In bici, temeva solo una cosa: il freddo. La potenza non si esprimeva, restava all’interno del suo corpo. Le cronache dell’epoca lo raccontano estremamente corretto, dotato di un grande fair-play. Non sempre ricambiato. A Copenaghen, 15 mila spettatori per la sfida col biondo Ellegaard. Sull’1-1, la bella. Taylor scivola sulla pista bagnata, cade e chiede all’avversario di ripetere la prova. Neanche per sogno, dice Ellegaard. E Taylor: «Sir, voi siete un grande campione ma non uno sportivo». In una sola stagione Taylor guadagnava tra i 30 e i 35 mila dollari. Smise di correre nel 1910. Scrisse la sua biografia: The extraordinary career of a Champion Bicycle Racer. Era il 1929, la Grande Crisi si portò via quel poco che gli era rimasto dopo alcuni investimenti sbagliati. La moglie lo piantò. Morì all’ospedale dei poveri di Chicago il 21 giugno 1932. A 50 anni dalla morte il velodromo di Indianapolis, da cui era stato cacciato per il colore della pelle, è stato intitolato a Major Taylor. Sydney, la figlia, è morta a 101 anni nel 2005. Nel 1984 aveva consegnato i ricordi di famiglia (libri, foto ecc.) agli archivi dell’università di Pittsburgh.

Leggi di più

Gli ultimi articoli

Gli argomenti più seguiti