Deportati oltre Adriatico, lugubre e inutile barzelletta

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La Quaresima inizia con il definitivo ok all’accordo Italia-Albania per realizzare due Cpr nel Paese delle Aquile. In Italia fior di rapporti documentano che tali strutture violano elementari diritti umani delle persone migranti, peraltro consentendo ben pochi rimpatri. E costando molto: forse converrebbe che lo Stato investisse in integrazione…

Il Parlamento ha dato l’ok definitivo giovedì: e così il primo venerdì della Quaresima romana, checché ne pensi l’Isaia di giornata – «Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: (…) rimandare liberi gli oppressi (…), introdurre in casa i miseri?» –, si celebra con la notizia dell’accordo Italia-Albania per costruire, oltre Adriatico, due Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr). Cioè, pane al pane, due centri di detenzione in cui saranno deportati migranti a migliaia.
C’è chi i Cpr li definisce lager: non a torto, lo sono da quando si chiamavano Cpt e poi Cie, lenzuolate di rapporti (anche Caritas) l’hanno documentato nel tempo e comunque basta leggere le cronache delle ultime settimane, da Milano Corelli a Roma Ponte Galeria a Potenza Palazzo San Gervasio, per rendersi conto della brutalità con cui sono “ospitate” per un tempo prolungato dall’attuale governo sino a 18 mesi persone che non hanno commesso delitto alcuno, che finiranno per essere rimpatriate in percentuale esigua, la cui dignità verrà invece calpestata in maniera robusta, tanto che qualcuno non reggerà e finirà col darsi la morte, come un mese fa ha fatto Ousmane, 22enne guineano che sul muro della cella sua ultima dimora ha scritto: “Se morissi vorrei che il mio corpo fosse portato in Africa, mia madre ne sarebbe lieta”.
Dunque abbiamo ucciso Ousmane e adesso esportiamo il modello nel Paese delle Aquile. Per capire la portata umanitaria del brillante accordo, anche a non voler dare credito alle critiche delle ong, basterebbe leggersi le prime tre righe del Rapporto sui Cpr firmato nello scorso giugno dal Garante nazionale dei detenuti, cioè un organismo statale: “La privazione della libertà delle persone migranti nei Cpr rimane un nodo problematico (…): carenze legislative, vuoti di regolazione, criticità strutturali, opacità sistemiche e inadeguatezze gestionali”.
Insomma una trovatona, questa della deportazione e detenzione dei migranti in Albania. Peraltro non senza costi, e ben ha fatto il presidente della Commissione episcopale per le migrazioni, monsignor Gian Carlo Perego, a parlare di soldi «buttati in mare». Facciamo che magari non siano i 673 milioni calcolati dal vescovo di Ferrara (ma nessuno l’ha smentito sul punto): anche fossero la metà, sarebbero un’enormità devoluta alla propaganda in servizio permanente effettivo che da un quarto di secolo fa credere all’italiano medio che l’epocale fenomeno delle migrazioni si governi con misure di polizia (contenendo, trattenendo, respingendo, rimpatriando).
Ora se chiedete al sindaco (cioè a me) di un paese che nello stesso quarto di secolo ha visto crescere la presenza di cittadini nati da un’altra parte del mondo sino a raggiungere la proporzione di 1 ogni 6, e quasi 1 ogni 5 residenti, se gli chiedete quante risorse nel frattempo lo Stato ha garantito al suo Comune per gestire i flussi migratori, con i problemi e le opportunità che essi portano con sé, vi risponderà: un rotondo zero. L’integrazione provano a farla i volontari, la parrocchia, le scuole, le società sportive, i vicini di casa, i negozianti, le imprese, le famiglie con anziani e, appunto, il Comune, che crede nella coesione sociale come condizione di sviluppo di un territorio. Un fenomeno complesso gestito dal basso, senza oneri per lo Stato, nel rispetto dei diritti e degli interessi di tutti: su questo modello bisognerebbe investire, è difficile ma è produttivo, altro che la lugubre barzelletta dei Cpr in Albania…

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