Elise Roche, alias Raymonde de Laroche e l’invito a usare le ali. Le nostre ali

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Elise Roche, alias Raymonde de Laroche e l’invito a usare le ali. Le nostre ali

Si chiamava Elise Roche. È passata alla storia con uno pseudonimo, Raymonde de Laroche. Professione: aviatrice. Prima donna ad ottenere il brevetto di volo.
Basterebbe la data della consegna per volare insieme a lei: 8 marzo 1910. Giorno dedicato ai diritti della donna. Elise, nata il 22 agosto 1882, era figlia di un idraulico parigino. Mezzi: scarsissimi. Il carattere: forte subito. L’esuberanza, evidente sin dall’adolescenza. Attrice, per cominciare a darsi da fare. Da qui, la decisione di cambiare nome: Raymonde de Laroche. Una scelta che la fece passare per “baronessa”. Il titolo, macché. In compenso, un’anima nobilissima. Andava forte in bici, in moto, in auto. Presa com’era da quel mondo così colmo di lampi, novità, velocità. Attratta presto dagli esperimenti di Wilbur Wright, il vero pioniere, insieme al fratello Orville, dell’aviazione. Chiese ad un’altra coppia di fratelli temerari, quella formata da Charles e Gabriel Voisin di far pratica sul campo di Chalons. Un biplano per imparare a rullare, guai a volare. Sì, ciao. Decollo – forse per nulla autorizzato – il 30 ottobre 1909. Duecentosettanta metri in aria, i primi. L’inizio di un viaggio entusiasmante.
Di lei parlavano i giornali, qualcuno cominciò a definirla “baronessa”. Lei zitta, ovviamente. Un’espressione da teppa, se posso permettermi, trattandosi di una signora. Una determinazione forsennata. Nonostante gli incidenti. Molti. Clavicola fratturata, commozione cerebrale nel gennaio 1910, primo schianto. Nulla di che, ovviamente, tanto è vero che l’Aero Club de France le consegnò la licenza di pilotaggio numero 36 pochi mesi dopo. Raymonde volava. In Francia, in Russia davanti allo Zar, in Ungheria. Secondo schianto, una sfilza di fratture pochi mesi dopo; un incidente automobilistico nel 1912 perché se cominci ad andare forte, vai forte sempre. Lei soffriva, si curava, riprendeva. Vittoria della Coppa Femina riservata alla donna capace di superare le 4 ore di volo. Impresa datata 25 novembre 1913. Chilometri percorsi: 323. E poi, beh, a terra, visto che era vietato decollare alle signore durante la Prima grande guerra. Autista dell’esercito, piuttosto che star ferma, tra il fronte e le retrovie. Trasportava ufficiali, i cui rischi, a bordo, non diminuivano affatto. Una parentesi: nel 1919 cominciò a specializzarsi in voli ad alta quota, primato del mondo sottratto all’americana Ruth Law, raggiungendo quota 4.800 metri.
Era celebre, celebrata. Era assorbita ormai da quel gusto sempre nuovo, da una adrenalina tipica. Desiderava diventare la prima collaudatrice di aerei della storia, decollò con un velivolo sperimentale. Era il 18 luglio 1919 ed era il suo ultimo volo, il suo ultimo giorno. Lo schianto, al momento dell’atterraggio. La morte: sul colpo. C’è una statua che la ricorda all’aeroporto parigino di Le Bourget, il suo coraggio, quella magnifica intraprendenza venne imitata da altre, presto e poi per sempre. Ma questa non è semplicemente una storia romantica che segnala una precoce, potente emancipazione. È un invito ad usare le ali. Le nostre, quelle che magari non si vedono. Basta cercarle, spolverarle un po’, spalancarle e partire. Anche quando sembrano all’apparenza inaccessibili, come lo furono per Elise, Raymonde de Laroche. Ali per volare. Sopra, in alto, dove si vuole e poi si può. Ali dorate come i desideri, come le emozioni che guizzano da qualche parte, tra la pancia e il cuore. I rischi? Inconsistenti rispetto all’ebbrezza, al piacere della scoperta, al tepore del vento sul viso.

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