Emma Strada Storia della prima ingegnera d’Italia

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La commissione di laurea restò a lungo incerta su come chiamarla: ingegneressa suonava davvero male. Alla fine si optò per ingegnere. Tanto Emma era l’unica con quel titolo. La notizia era così bizzarra che La Stampa, il quotidiano di Torino, ne dette l’annuncio e aggiunse che la neolaureata, “ha appena altre due o tre colleghe all’estero”

Tra gli anniversari del 2024, uno merita un’attenzione speciale: i 150 anni dal “permesso” accordato alle donne di iscriversi ai licei e all’università. Un “permesso” che restò a lungo più teorico che pratico, se è vero – come ricorda la storica Valentina Piattelli – che «in realtà, continuarono ad essere respinte molte iscrizioni femminili». Un secolo e mezzo dopo, molto è cambiato: oggi, secondo l’Istat, le donne rappresentano il 59,4 per cento del totale dei laureati. Ma c’è un settore in cui la presenza femminile resta minoritaria: le discipline del gruppo Stem (Scienze, Tecnologia, Ingegneria, Matematica). I dati più recenti del Miur fissano in un deludente 31,1 la percentuale di donne laureate in ingegneria: meno di una su tre, fra quanti cingono l’alloro.
Vale la pena, allora, raccontare la storia della prima ingegnera d’Italia: Emma Strada (un cognome che era già un programma). Torinese, figlia d’arte (il padre, Ernesto, ingegnere civile, era titolare di un grande studio di progettazione e ingegnere fu anche il fratello), nata nel 1884, si laureò, con il massimo dei voti, poco prima di compiere i 24 anni, il 5 settembre del 1908. La commissione di laurea, al Politecnico di Torino, restò a lungo incerta su come chiamarla: ingegneressa suonava davvero male. Alla fine si optò per ingegnere. Tanto Emma era l’unica con quel titolo. La notizia era così bizzarra che La Stampa, il quotidiano di Torino, ne dette l’annuncio e aggiunse che la neolaureata, un’eccezione in Italia, “ha appena altre due o tre colleghe all’estero”.
Emma Strada si mise subito all’opera: in cantiere, dal mattino alla sera, con il padre accanto, lavorò alla progettazione e alla costruzione di una galleria per drenare l’acqua da una miniera di pirite a Ollomont, in Val d’Aosta. Le foto d’epoca la ritraggono con larghi cappelli e soprabiti fino alle caviglie, sola donna in gruppi di uomini e sempre al centro, forse per cavalleria.
Un anno dopo la laurea, si trasferì in Calabria per realizzare l’automotofunicolare di Catanzaro (in pratica, una linea tranviaria) e seguire i lavori del ramo calabrese dell’acquedotto pugliese.
Tornò poi a Torino. Accettò anche un incarico come assistente all’università, nel Gabinetto di igiene industriale. E continuò a sfornare progetti: per asili nido, per l’ampliamento del Municipio di Varazze, per edifici residenziali e perfino per lo scavo di una miniera d’oro ai piedi del Monte Rosa. Non ne firmò nessuno: fino agli anni Cinquanta non chiese di iscriversi all’Albo degli ingegneri. A settant’anni, la svolta: con altre donne, nel 1957 fondò l’Aidia, Associazione italiana donne ingegneri e architetti, e ne divenne la prima presidente, col proposito di incoraggiare le ragazze a scegliere queste professioni, che continuavano a essere considerate più adatte agli uomini.
Morì il 26 settembre del 1970. In quell’anno la percentuale di donne laureate in ingegneria era appena dell’1 per cento. Nel giugno 2022 il Politecnico di Torino ha deciso di intitolarle un’aula: la Sala dell’ex Consiglio. Perché rimanga traccia di una donna che ha aperto la strada a molte altre.

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