Gianni Celati e il gusto del viaggio che nessun traguardo riuscirà ad appagare

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Celati insegnava letteratura angloamericana. Alto e sempre un po’ scombinato, con quelle mani grandi che spuntavano da maglioni sformati. Le sue lezioni come un porto dentro il quale ogni libertà di pensiero poteva trovare sbocchi su ipotesi affascinanti

Si chiamava Gianni Celati. Scrittore, da Sondrio, data di nascita 10 gennaio 1937, a Brighton, Inghilterra, dove è morto all’alba di questo nuovo anno, 3 gennaio 2022. Chi ha letto le sue opere, molte e diverse tra loro, avrà ricevuto arricchimenti a più strati, intendendo qualità della scrittura, potere della riflessione, valore della curiosità e della meraviglia, qualcosa che stava nel suo viso da ragazzo, con gli occhi vispi sempre e un sorriso evocato anche nei momenti di serietà. Sto parlando di viaggi in sua compagnia, pronti sempre, basta leggere, appunto, i suoi testi, a cominciare dalle Comiche datato 1971. Romanzi e poi altro o, meglio, un’altra relazione con il viaggio, avviata negli anni Ottanta utilizzando una diversa forma di linguaggio, ispirato dalle fotografie di Luigi Ghirri. Narratori delle pianure data 1985. Rappresenta una curiosa fosforica forma di reportage. Pianure padane, gli argini del Po come una lunga culla dove trovare storie e parole colme di un fascino in via di estinzione, qualcosa che aveva riempito la memoria di Cesare Zavattini, da Luzzara, cresciuto dai ritmi lenti del grande fiume e disposto ad un ritorno nei suoi luoghi, fotografati “vent’anni dopo” da Gianni Berengo Gardin. Celati, scrittore, traduttore, documentarista, non ha mai smesso di viaggiare. L’ha fatto raccontando Senegal e Mali per un documentario colmo di suggestioni; l’ha fatto insegnando al Dams di Bologna nel cuore degli anni Settanta. Fu lì che lo incontrai, ero uno studente strapazzato da turbolenze difficili da decifrare (allora e per molti versi ancora adesso), preso a mia volta da una curiosità così potente da restringere ai minimi termini il confine tra un atto esplorativo e un errore madornale. Non era semplice orientarsi, individuare una forma sintonizzata su aspirazioni confuse, percorse da una violenza data come necessaria, talvolta, vista come una tragedia con ritardi più o meno irreparabili. Celati insegnava letteratura angloamericana. Alto e sempre un po’ scombinato, con quelle mani grandi che spuntavano da maglioni sformati.
Le sue lezioni come un porto dentro il quale ogni libertà di pensiero poteva trovare sbocchi su ipotesi affascinanti. Chiedeva di monitorare, memorizzare e descrivere i percorsi urbani che ciascuno studente percorreva per raggiungere l’aula di Strada Maggiore. Un allenamento dello spirito di osservazione da perseguire come ogni atleta cerca un fondo, il fiato, il tono per poter correre cento metri o una maratona. Parlava della falsificazione come di un’infrazione comunque prevista da ogni sistema a studenti che pensavano di far saltare il banco rifiutando di pagare il biglietto dell’autobus, di un treno. Svegliava e nello stesso tempo accompagnava senza darlo a vedere, in quel tempo crudo che ancora adesso mantiene le sembianze di una selva oscura. Come capita quando trovi un buon maestro, un sapiente e ironico Mago Merlino: il desiderio di capire e di studiare monta naturalmente, diventa una semplice conseguenza. Così, mentre ricordo e invito a leggere Celati, ho a che fare, di nuovo, con una gratitudine profonda. Con una presenza che nessun commiato potrà allontanare, insieme alla consapevolezza di poter provare a comprendere ancora e meglio, di riuscire a studiare ancora e meglio, grazie a quell’allenatore formidabile, a quel gusto del viaggio che nessun traguardo mai riuscirà ad appagare.

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