Il caso Moro e il brigatista ipocrita

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Chi potrebbe dire, tace. Chi sa, si gira dall’altra parte. Ma né i brigatisti che si sono avvicinati alla fede, né quelli che si sono avvicinati alla malavita hanno aggiunto una parola

Avviso ai gentili lettori di Scarp: quello che segue non è un fatto certo, nel senso che il giornalismo, quando è ben fatto, ha bisogno di riscontri. E non li ho. Sono difficilissimi da trovare e ormai, dal 2021 mi sono dimesso da Repubblica e mi occupo prevalentemente di teatro, perciò ho meno voce in capitolo. Ma mi sono rimasti moltissimi contatti. Quindi non ho perso la speranza di poter, un giorno, verificare, quindi accertare, e quindi poterne scrivere meglio. Per il momento, dunque non è una notizia, anche se non riesco a non pensarci, quando sui giornali leggo di Aldo Moro. Dal suo rapimento (16 marzo 1978), con strage della scorta in via Fani a Roma, e dalla sua morte (9 maggio) dopo 55 giorni di prigionia, Moro non è solo una vittima delle Brigate Rosse (e non solo), ma è diventato un fantasma, un caso, un labirinto di processi, di commissioni parlamentari, di libri, di film, di rappresentazioni teatrali. E personalmente – veniamo al punto – una fonte, per me credibile, mi ha spiegato che il cosiddetto Memoriale Moro (quello che lo statista ha scritto mentre era prigioniero dei terroristi) non è del tutto autentico. è stato invece manipolato. Per cancellare alcune parti e aggiungerne altre: in nome della sicurezza nazionale. Ma questo, ripetiamolo, non è un fatto. Non può esserlo. Non ancora. è solo una suggestione. Un suggerimento. Un incitamento, forse, a saperne di più. E senza nemmeno la certezza che la prima “voce” sia vera.
Il giornalismo d’inchiesta funziona così, tante volte; e trovo francamente ridicoli i vari opinionisti, che mai hanno lavorato dentro i fattacci, che non conoscono investigatori, avvocati e magistrati, che continuano a discettare sul vero e sul falso del caso Moro senza la minima verifica. Intorno a Moro, accanto a chi cerca la verità, c’è da sempre chi cerca di nascondere la verità. Chi vuol “apparire” senza faticare. Chi, senza elaborazione, lavora per qualche altro schieramento, utile alla carriera, alle amicizie, alla parte politica. Chi, anche tra i magistrati, dice che lo Stato ha battuto il terrorismo esclusivamente con gli strumenti della legalità. E chi, di fronte a simili affermazioni, scuote la testa. Recentemente su Repubblica un generale che gode della fama di persona perbene, Roberto Jucci, ha spiegato alcune sue visioni del caso Moro. Innanzitutto, che nessuno ha pedinato i postini, le persone che portavano le lettere di Moro alla famiglia: sarebbe bastato non perderle di vista per arrivare ai postini delle Brigate Rosse. Secondo, la loggia P2 era dentro gli organismi dello Stato che avrebbero dovuto salvare lo statista e invece hanno remato contro. Il generale, 98 anni, ha un’ottima memoria.
In una successiva intervista, il senatore Giovanni Pellegrino, della Commissione Stragi, ha raccontato che “amici” di Moro avevano (avrebbero?) consegnato alle Br un documento originale riservatissimo, sulla rete della Nato che sarebbe diventata operativa in caso di invasione dall’Est, nota come Gladio. Copie di quel documento erano a Milano, nel covo di via Montenevoso, e l’originale sarebbe stato trovato – condizionale obbligatorio – nel giardino del covo genovese di via Fracchia. Qui i carabinieri entrarono nel marzo 1980, ammazzarono quattro brigatisti, uno dei quali – Riccardo Dura – con un colpo di pistola alla nuca.
Non era facile allora e non è facile oggi, a quasi mezzo secolo di distanza, separare fatti da opinioni e da suggestioni. A me, da umile cronista, resta un gigantesco interrogativo. Cioè, ad esempio, noi non sappiamo: quali terroristi erano in via Fani e chi ha sparato, perché alcuni non sono stati mai identificati; dove è stato custodito Moro, in che modo, da chi, quando è stato fatto il trasferimento da un covo all’altro (periodicamente ci sono “rivelazioni”); perché, se molti terroristi volevano Moro libero, invece è stato ammazzato.
E resta un’amara considerazione: in Italia anche i terroristi sono ipocriti. Chi potrebbe dire, tace. Chi sa, si gira dall’altra parte. Paolo VI si era messo in ginocchio per chiedere la liberazione dello statista. Il boss Turatello s’era dato da fare nelle carceri per premere sui brigatisti e ottenere il rilascio dell’ostaggio. Ma né i brigatisti che si sono avvicinati alla fede, né quelli che si sono avvicinati alla malavita hanno aggiunto una parola. Meglio tirare a campare, questo lo slogan che accomuna ogni italiano medio (e, a volte, anche mediocre).

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