Ma gli insegnanti sanno ancora “educare”?

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Si è persa l’occasione per comprendere che non tutti possono entrare in un’aula e che chi insegna ha bisogno di un continuo supporto formativo fatto da educatori di strada, operatori di comunità, ed educatori penitenziari che ogni giorno si misurano con chi si oppone

Il caso di Rovigo dove uno studente ha preso nove in condotta e la media dell’otto nelle discipline, nonostante avesse sparato dei pallini alla sua professoressa, ha aperto in Italia una discussione sul voto in condotta che ha resuscitato i peggiori istinti “autoritaristi” che covano nella pancia di molti nostri concittadini che, – anche se docenti, – hanno votato la destra. Un secondo dopo aver scoperto la decisione del consiglio di classe, senza sapere le motivazioni dei docenti, i più hanno invocato a gran voce la bocciatura, il cinque in condotta, i lavori socialmente utili, l’intervento del ministro Valditara che – per assecondare il popolo – alla fine si è presentato, obbligando il consiglio di classe a fare retromarcia.
Tutti a puntare il dito sull’errore (che c’è stato e va preso in considerazione), sulla colpa, sulla responsabilità del ragazzo. Nessuno – a parte chi scrive e pochi altri pedagogisti come Daniele Novara o Raffaele Mantegazza – ha riflettuto sul comportamento della professoressa. Si è dato per assunto che la docente abbia comunque fatto il suo dovere perché era lì, dietro una cattedra, scambiando così il concetto di autorità con quello (che serve a scuola) di autorevolezza. Vi riporto testuali le parole che pronuncia la professoressa una volta colpita dai ragazzi (la fonte è il video girato dagli studenti e visibile su YouTube): «Eh no! Questa non ve la perdono! Mamma che male! Chi è che mi ha buttato la pallina proprio sulla testa?», domanda incredula la docente restando dietro la cattedra. Poi richiede: «Chi mi ha buttato questa cosa mi ha fatto male veramente. Chi è che l’ha buttata? Chi è che l’ha buttata di voi?». Poi si siede e arriva un altro pallino. Lei si alza, resta dietro la cattedra e dice tra le risate di tutti: «Di nuovo?».
Ora, premesso che nessuno deve portare a scuola una pistola ad aria compressa. Dato per scontato che quel ragazzo non meritava un nove in condotta ma magari un sei senza essere bocciato, perché come diceva don Lorenzo Milani “se si perde loro, la scuola non è più la scuola. è un ospedale che cura i sani e respinge i malati”.
Detto ciò, è fuorviante non riflettere sulla docente, al fatto che appare del tutto inadeguata al suo ruolo. Entrare in classe non significa saper insegnare latino, greco o biologia ma essere educatori e talvolta educatori di strada. Pur di rischiare di apparire presuntuoso porto un esempio personale. Lo scorso anno ho svolto, in una classe mista di quarta e quinta, un laboratorio di falegnameria. Quando ho scoperto che gli attrezzi adoperati erano serviti a fare dei buchi nella scuola avevo tre strade: urlare contro di loro; fare una nota o chiamare i genitori; o avviare un dialogo fermo, deciso, autorevole. Ho scelto quest’ultima strada: ho mostrato loro la legge che disciplina i reati contro il patrimonio pubblico, ho chiesto al sindaco del paese un intervento, e ho dialogato con loro senza cercare colpevoli ma una relazione educativa che cambiasse il loro atteggiamento. Se fossi stato in quella classe di Rovigo non sarei rimasto un attimo dietro la cattedra, e nessuno dall’aula sarebbe uscito finché l’arma non fosse spuntata. Da lì avrei avviato un percorso educativo e di mediazione penale, come si usa dire negli istituti di pena. Ancora una volta, invece, si è persa l’occasione per comprendere che non tutti possono entrare in un’aula e che chi insegna ha bisogno di un continuo supporto formativo fatto da educatori di strada, operatori di comunità, ed educatori penitenziari che ogni giorno si misurano con chi si oppone.

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